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Opere

Fabio Cifariello Ciardi
Pa(e/s)saggi
(1999)
per Viola, Live electronics e Nastro magnetico


Durata: 14:00
1� Esecuzione: Piccolo Teatro - Milano - 12/2000
Commissionato da: Agon - Centro Armando Gentilucci - Fondazione Dragoni

Questo lavoro, forse più di altri scritti in precedenza, è partito da una domanda. Ed è una domanda che rimanda ad un'esperienza apparentemente non musicale: cosa accade nell'abitare uno spazio?
Cominciamo a chiarire i termini della questione. Abitare, anzitutto vuol dire ritrovarsi in un 'dentro' in qualche modo separabile rispetto ad un 'fuori'. Il 'fuori' in questo caso è ciò che precede il momento dell'ascolto: il mondo reale, la sala da concerto, la vita vissuta prima di entrare in sala; il 'dentro' è il mondo che comincia con il pezzo, la scommessa di un paesaggio simulato dalla musica, dagli altoparlanti che circondano il pubblico. La prima illusione proposta riguarda proprio il contrasto fra i limiti reali dello spazio interno, quello della sala, e quelli definiti dal suono. Superato il contrasto, dimenticato ciò che sta 'fuori' si può pensare di articolare il 'dentro'. Le domande allora si moltiplicano. Una parte dell'illusione è centrata sull'espansione: uno dei luoghi abitati da chi ascolta - un pubblico inteso come una sola grande testa, come un unico ascoltatore/visitatore - l'ho pensato come uno spazio aperto, dai confini lontani. Un'illusione opposta mira invece alla definizione di spazi piccoli, raccolti. Mi sono domandato: cosa si sente chiusi in una piccola scatola? Cosa si sente a ritrovarsi dentro la cassa armonica di una viola? Il suono dell'aria filtrata, colorata dalla cassa armonica? Piccoli sussulti, impercettibili nella realtà che qui scuotono l'attenzione?
L'articolazione di tali illusioni comporta diverse conseguenze. La prima, ovvia, è che il luogo abitato dal pubblico tende a configurarsi in modo inevitabilmente dinamico, con dimensioni variabili: grandi, piccole, piene, vuote. E poi, se si vuole la mutevolezza occorre porsi la questione del passaggio tra grande e piccolo o tra piccolo e grande. Ammettiamo allora che l'ascoltatore possa sentire di 'passare' più o meno rapidamente tra luoghi definiti da dimensioni variabili; se questo è possibile allora si dovrebbe presupporre un senso del tempo che intanto è al di fuori dello scorrere reale, e che è soprattutto mutevole, instabile poiché spazi di dimensioni diverse non possono che essere vissuti psicologicamente con scansioni temporali diverse.
La messa in suono del 'passaggio' tra spazi diversi dovrebbe tenere conto di una 'fisica' possibile che governa il mondo proposto e non solo delle possibilità di miscelare il suono. In un tale contesto allora il 'passare' potrebbe concretizzarsi in un graduale spostamento nello spazio (qualcosa esce mentre qualcosa di nuovo entra), ma non solo. Nella fisica reale i muri fra gli spazi possono essere forati, frantumati, strappati (volendo ammettere fra i confini possibili, perché no, anche le delicate pareti di un'antica dimora giapponese). In una fisica immaginata le schegge di uno spazio possono subdolamente trasformarsi nel fondale naturale (o quasi) del paesaggio successivo. E ancora. Possono essere dei simboli sonori fisicamente più o meno ammissibili a rendere possibile il passaggio: uno spazio può invadere lo spazio precedente approfittando di una porta incautamente aperta oppure può aprirsi un varco momentaneo 'accartocciando' il paesaggio precedente così come si cestina uno schizzo venuto male.
È il concetto decisamente esteso del mescolare, del miscere che spesso entra in gioco. L'etimologia del termine apre un campo semantico assai articolato: miscere rimanda al confondere e dunque alla perdita delle identità originarie, ma anche all'unire nel senso di legare ciò che inizialmente è separato, e ancora, incendia miscet vuol dire produrre incendi, proelia miscere è l'attacar battaglia. Infine il mescolare presuppone un preparare e quindi un'attesa fattiva verso un futuro oggetto: il mescolare allora può essere simbolo di un'anacrusi, di un 'levare' verso ciò che il mescolato diverrà.
Se decidiamo di abitare uno spazio dovremmo anche domandarci se qualcuno - o meglio - qualcosa è arrivato prima di noi. La presenza reale/umana sulla scena troverà qualcuno lì dove è finito? (E, detto per inciso, lì c'è finito dal pezzo precedente… dal secondo quadro di un racconto più ampio iniziato in Francia ormai molti anni fa ed intitolato "Giochi e Finzioni").
Le presenze che animano gli spazi si riallacciano al reale secondo gradienti diversi. La loro connotazione, il loro rapporto con una memoria sonora comune agli ascoltatori è forse il principale parametro che li caratterizza e di sicuro è la lente attraverso la quale ho vincolato le scelte compositive pratiche che determinano la loro caratterizzazione. Le memorie che qui si attivano sono, per così dire, pre-musicali nel senso che non rimandano ad una conoscenza direttamente legata alla musica ma a mondi di suono più antichi. Fra questi il principale è quello fondato sulla parola. Una parola mai affermata, palesata, ma che informa e definisce intimamente sia l'articolazione strumentale della viola, sia quella di una delle categorie di oggetti sonori.
Chi è infine la viola? Da un punto di vista drammaturgico ci fornisce un duplice punto d'attrazione. Per un verso, la viola dal vivo è il protagonista - in ogni caso lo sarebbe! - ed anche il compagno d'esplorazione di ogni volenteroso ascoltatore/visitatore seduto fra il pubblico. Essendo unico elemento fisicamente tangibile di uno spazio non fisico in movimento non poteva essere costretto sul palco, ma gli si doveva concedere la possibilità di una certa - questa volta reale - mobilità. La seconda funzione della viola è 'genetica'. Il materiale sonoro dello strumento è base più o meno leggibile per diversi oggetti sonori ibridi e non connotati che contrastano, integrano, mutano, sostituiscono parti, schegge dell'ambiente acustico.
L'essere riferimento genetico, polo, di parti dell'universo acustico assegna ai materiali sonori prodotti e producibili dalla viola una funzione volutamente e anche inevitabilmente simbolica. Un'intera 'classe' di oggetti sonori deriva da dettagli 'micro-fonici' dello strumento individuati e registrati nella fase iniziale di lavorazione: è ciò che abita lo spazio piccolo chiuso, il 'dentro' di una viola cui prima si accennava. Ma allora ciò che il solista sulla scena sta esplorando è veramente qualcosa al di fuori di lui, o un'allegorica ed esplosa parte di un proprio 'dentro'? Il dubbio spero permanga . D'altra parte il far perdere le rassicuranti coordinate di una logica radicata vorrei fosse una delle più intriganti scommesse del mio lavoro.
La ricerca di un passivo spaesamento in quello che Peter Handke ha chiamato "Il mondo interno dell'esterno dell'interno", accanto ad una viola che sfiora sempre l'ansia della definitiva perdita del sentiero è l'intonazione, il clima poetico che vorrebbe dominare buona parte del pezzo. Poi forse qualcosa succede? (se non nella vita, almeno nella musica?)

Commentano il mio viaggio e, d'altra parte, sono dal mio lavoro commentati alcuni versi di san Juan de la Cruz

Tras de un amoroso lance,
Y no de esperanza falto,
Volé tan alto, tan alto,
Que le di a la caza alcance.
…
Y con todo, en este trance
En el vuelo quedé falto;
Mas el amor fué tan alto,
Que le di a la caza alcance
…
Esperé solo este lance,
Y en esperar no fuí falto,
Pues fuí tan alto, tan alto,
Que le di a la caza alcance


In amoroso furore
e non scevro di speranza
volai così in alto, così in alto
che raggiunsi la preda.
…
Tuttavia, nel punto estremo,
il mio volo restò manco;
ma l'amor fu così alto
che raggiunsi la preda.
…
ho sperato solo nel furore
e in speranza non fui manco
se salii così in alto, così in alto
che raggiunsi la preda.


da Coplas al divino in Juan de la Cruz, Poesie, Einaudi ed. 1974