1a edizione
1° CD Call
Punti di ascolto
opere di musica elettroacustica
Brani inclusi nel CD:
1. Stefano Trevisi (1974) Swallow I (2002)
per voce recitante ed elettronica (4’05”)
Giulia Mirandola voce
Produzione: Tempo Reale (Firenze) – Studio di Musica Elettronica del Conservatorio “A. Boito” (Parma) – GrocLab (Barcellona)
2. Stefano Scarani (1966) Disphase (2001)
per voce, pianoforte preparato, percussioni ed elettronica (8’53”)
Laura Catrani voce
Alberto Morelli pianoforte e percussioni
Stefano Scarani percussioni
Testo di Stefano Scarani
Produzione: Tangatamanu, in collaborazione con AGON acustica informatica musica - Centro Studi Armando Gentilucci
3. Angelo Benedetti (1964) Incubi (2002)
per elettronica (9’29”)
Produzione: Studio di Musica Elettronica del Conservatorio “F. Morlacchi” di Perugia
4. Massimo Biasioni (1963) Pallide risonanze avvolte (2000)
per corno di bassetto e live electronics (12’00”)
Roberta Gottardi corno di bassetto
Massimo Biasioni live electronics
Produzione: Studio del compositore
5. Francesco Galante (1956) Retroscena, memoria di una voce (2003)
per elettronica (7’26”)
Produzione: Studio del compositore
6. Vincenzo Gualtieri (1965) Field (2003)
per elettronica (5’50”)
Produzione: Studio del compositore
7. Elio Martusciello (1959) Presenti successivi (2003)
per elettronica (11’00”)
Produzione: Studio del compositore
Brani inclusi nel CD:
1. Stefano Trevisi (1974) Swallow I (2002)
per voce recitante ed elettronica (4’05”)
Giulia Mirandola voce
Produzione: Tempo Reale (Firenze) – Studio di Musica Elettronica del Conservatorio “A. Boito” (Parma) – GrocLab (Barcellona)
2. Stefano Scarani (1966) Disphase (2001)
per voce, pianoforte preparato, percussioni ed elettronica (8’53”)
Laura Catrani voce
Alberto Morelli pianoforte e percussioni
Stefano Scarani percussioni
Testo di Stefano Scarani
Produzione: Tangatamanu, in collaborazione con AGON acustica informatica musica - Centro Studi Armando Gentilucci
3. Angelo Benedetti (1964) Incubi (2002)
per elettronica (9’29”)
Produzione: Studio di Musica Elettronica del Conservatorio “F. Morlacchi” di Perugia
4. Massimo Biasioni (1963) Pallide risonanze avvolte (2000)
per corno di bassetto e live electronics (12’00”)
Roberta Gottardi corno di bassetto
Massimo Biasioni live electronics
Produzione: Studio del compositore
5. Francesco Galante (1956) Retroscena, memoria di una voce (2003)
per elettronica (7’26”)
Produzione: Studio del compositore
6. Vincenzo Gualtieri (1965) Field (2003)
per elettronica (5’50”)
Produzione: Studio del compositore
7. Elio Martusciello (1959) Presenti successivi (2003)
per elettronica (11’00”)
Produzione: Studio del compositore
Punti di ascolto
Per qualche ragione oscura, forse legata alla sciagurata "gerarchia delle arti" di origine crociana, l'espressione italiana "punto di vista" possiede un valore assai più nobile della corrispondente espressione nostrana "punto di ascolto". Il "punto di vista" è ad esempio quello dello scienziato che osserva un fenomeno della natura (al punto che un epistemologo "anarchico" come Feyerabend lo considera ben più determinante, per la fondazione di un paradigma scientifico, dello stesso oggetto osservato), il "punto di vista" è anche quello dello scrittore di fronte alla storia che racconta (tanto che un narratore di immagini come Akira Kurosawa, ad esempio, ha costruito la storia di Rashomon facendo raccontare ai quattro protagonisti del film altrettante "visioni" della medesima vicenda). Al "punto di ascolto", viceversa, si tende ad attribuire ben scarso credito. Al massimo lo si considera in modo puramente letterale, nel senso di luogo circoscritto dal quale un soggetto compie l'esercizio di ascoltare un qualsiasi fenomeno sonoro. E a questa condizione si attribuisce tutt'al più un ruolo di carattere meramente "acustico". Quasi mai la posizione non metaforica, ma interpretativa, dell'ascoltatore viene considerata uno dei parametri fondamentali di quel complesso di azioni e reazioni che costituisce il sapere musicale.
Nella decifrazione e nella interpretazione di suono, o di una sequenza ordinata di suoni, il "punto di ascolto" è invece una questione cruciale: sia nell'universo infinitamente articolato della musica scritta, sia nel dominio altrettanto complesso dei suoni artificiali, quei suoni "speciali" cioè che non si possono facilmente tradurre in segni. Evitando con un balzo la dimensione oggettivante della musica letta (o anche semplicemente leggibile) la musica cosiddetta "elettronica" attribuisce involontariamente alla dimensione soggettiva dell'ascoltatore una funzione interpretativa cruciale, elevando il "punto di ascolto" ad un autentico parametro strutturale. Il tasso di soggettività e dunque di arbitrarietà ermeneutica subisce di conseguenza uno strepitoso balzo all'insù, allargando in maniera a volte spettacolare, ma anche straordinariamente fertile, la forchetta percettiva tra il produttore del suono e il suo consumatore.
Se si sceglie un "punto di ascolto" libero da ogni condizionamento strutturale (quello che porta a ricercare necessariamente una forma, una logica sintattica e una coerenza grammaticale) un pezzo come Swallow I di Stefano Trevisi rivela ad esempio una fortissima componente mimetica: la "glossolalia" iniziale che attraverso la Masticazione di Claudia Castellucci simula l'atto del mangiare si trasforma immediatamente in una sorta di "glossofagia" in cui i suoni si fanno essi stessi cibo, diventano oggetti "mangiabili", ma terribilmente indigesti: i bordi del suono vengono mangiucchiati, rosicchiati, nel vano tentativo di renderli commestibili. Il risultato è la rappresentazione angosciosa della impossibilità stessa di trasformare il cibo in nutrimento: la bulimia del suono si trasforma nel suo esatto contrario, una potenziale anoressia del linguaggio. Sulla "tavola sonora" va in scena, così, una sorta di devastata ars comendi che si consuma nel grufolare compulsivo di un animale meccanico, nella ricerca febbrile di un eccesso di cibo e nella speculare impossibilità di assimilarlo.
Il "punto di ascolto" dal quale sentire, fisicamente, Disphase, il brano di Stefano Scarani, è invece quello del testo, un testo (sorpresa…) frequentemente intelleggibile, generato da incubi intimi e visioni "private" e che dunque non può, letteralmente, tacere. La parola diventa dunque il soggetto della propria moltiplicazione fonetica, ma i suoni che nascono da questa "partenogenesi" non perdono un'unghia, mai, del loro senso. A volte non cedono nemmeno le proprietà del loro significato. Suono, senso e significato entrano, anzi, in una sorta di movimento a spirale lungo il quale si raccolgono i brandelli, i profumi, di un ricordo infantile, di uno spavento, di una risata, di una favola raccontata a voce bassa prima di dormire. Il suono non verbale, il materiale puramente elettronico che si intarsia con la voce, assume però, nel finale, una curiosa cerimonialità, una fissità celebrativa e "funebre" che gradualmente si scompone in rifiuti, scorie, scarti di suono.
L'ascolto di Incubi, il pezzo di Angelo Benedetti, non richiede, al contrario, un solo punto, ma una rete di tanti, diversi centri di attenzione. La scrittura sonora sembra del resto incardinata, forse involontariamente, intorno al cosiddetto procedimento retorico dell'ipotiposi, che consiste nell'offrire un'immagine "visiva" di un oggetto verbale o sonoro. I suoni fissi, "stirati", quasi allungati che si colgono all'inizio cominciano subito a ruotare lentamente nello spazio sonoro e a disegnare orbite costantemente circolari. Dopo una breve transizione statica, legnosa, inizia a germogliare un sottobosco di voci sussurrate, una selva oscura e brulicante di minuscoli animali sonori che si muovono rapidamente in un ambiente umido e notturno. Gli unici suoni "concreti" che entrano nel quadro visivo, voci di radio e di città rumorose, vengono subito divorati da una creatura sonora aggressiva, metallica, impettita che si muove con un passo rigido e meccanico. Il suo profilo è però sfocato, circondato da un alone luminoso che gli fa da aureola, da corona o da eco. Verso la conclusione del tragitto lo sguardo coglie ancora qualche oggetto spiraliforme, insinuante, gravido di umidità che disegna curve sinuose, a tratti esauste, quasi cadenti. E la conclusione è solo vento senza materia, senza corpo, né direzione.
È una linea diritta e decisa, invece, quella tracciata, ad onta del titolo, da Pallide risonanze avvolte, l'"inventio" di Massimo Biasioni: tanto da ancorare l'ascolto ad un punto rigido, scritto con l'inchiostro nero, quello dell'antico, negletto e splendente, virtuosismo strumentale. Entra (o torna) in scena il sonatore virtuoso, l'inventore di toccate e fantasie, l'architetto di spirali e ricami. Che infatti, affidandosi alle impertinenze dello "stockhauseniano" corno di bassetto, inizia subito a disegnare volute e ornamenti finissimi, a tratti persino spudoratamente "belcantistici". La bellezza del suono puro lascia dietro di sé solo piccole scorie degradate di suono sporco, ma il "conducator" non flette il suo collo di cigno: si inalbera, geme, si inabissa, si intigna in suoni grappolosi, indugia negli sforzando e stira sino allo spasimo i glissando. Poco prima del "game over" la sfida tra il virtuoso e il suo doppio elettronico si incrudelisce: sul terreno di battaglia gonfia i muscoli un crescendo armigero, agonico, quasi da duello all'arma bianca, che poi però si sfianca in strisce di suono granuloso: il moto si fa ondivago e incerto, quasi cieco e dimesso. La fine è un cinguettio meccanico che sembra uscito dalla macchina "omonima" di Paul Klee: il collo del cigno si piega verso il velo dell'acqua e intona colori ingrigiti e smorti, tinte più "pallide e avvolte", appunto.
Il "punto ideale" dal quale mettersi all'ascolto del brano di Francesco Galante, è invece, senza ambiguità, quello suggerito dal titolo: Retroscena. Non proprio un angolo appartato "dietro" il palcoscenico, forse, ma un rettangolo o un cerchio disegnati sulla scena di quel teatro tutto interiore, e clamorosamente rumoroso, che è il "teatro della phoné" di Carmelo Bene. Il "suono fondamentale" che nasce sulla scena è fisso, leggermente ondulato, come un trillo lento e prolungato. Da questo involucro cerca di uscire a fatica, lacerando la superficie del bozzolo, una vocina animalesca e scomposta, spezzata in tante pieghe, accartocciata su se stessa, ancora impiastricciata del suo liquido amniotico. È una vox vocis, una voce intemerata e mitica, leggendaria e astrale, la voce "fonica" di Carmelo ("la riconoscerai tra mille!"). Una frase nitida e clonata, poi pulviscolo sonante, fruscio sommerso, sul quale si infila come un cuneo la voce stentorea e tonante dell'Attore. Ancora lo sforzo del suono di uscire da una prigione, da una gabbia di parole degradate ed attorcigliate su se stesse, colte in una recita infantile, e poi nel finale il ricordo, quasi in forma di catalogo, dei materiali, dei reperti fonici che la voce di Carmelo ha abbandonato sulla via di un potenziale, utopico, "teatro elettronico".
Utopia per utopia: se esistesse un analogon acustico del "trompe l'oeil" visivo, una sorta di "trompe l'oreille" sonoro, un pezzo prismatico come Field di Vincenzo Gualtieri troverebbe in un lampo il suo punto d'ascolto. Il gioco a cui viene invitato l'ascoltatore potenziale è infatti quello del "mostra e nascondi": ti faccio sentire il suono di un oggetto concreto (pioggia, acqua gelata, vento, campane), ma subito nascondo la mano dietro la schiena e ti dico che in realtà la "cosa" che ascolti non è altro che musica, suono creato da strumenti squisitamente musicali. Non "musique concrète", bensì "musique sonore". I suoni gocciolanti e liquidi e curiosamente "mimetici" che si colgono nell'incipit, ad esempio, lasciano subito affiorare un idioma schiettamente pianistico, anche se la mano rapida di un disegnatore traccia il profilo di alcuni dei parenti prossimi del pianoforte: il gamelan giavanese, il "prepared piano" di John Cage. E come in un gioco di domino dalla pancia del pianoforte emergono le sue viscere: le corde. Un arco che stride su una cordiera, una lenta khora africana, un'arpa dai suoni gelati, persino il ricordo di un vago theremin insinuante e insistente. Ma l'idioma della "liquidità" oscura rapidamente la mappa: ancora la pioggia meccanica, l'acqua gelida, le gocce di mare. Qualcuno o qualcosa riesce però a tenere la testa fuori dall'acqua, a non annegare: è un piccolo cembalo giocattolo che intona, distrattamente, una musique enfantine lontanissima e nostalgica.
Anche il pezzo di Elio Martusciello, Presenti successivi, possiede, come gli altri che lo precedono, una forte propensione narrativa. Ma in questo caso il modo del racconto è uno dei più antichi che si conoscano: quello del cantastorie, del narratore di "cunti" che con la sua bacchetta mostra al pubblico i quadri delle leggenda. Ecco allora che scorrono, dal nostro punto di ascolto, gli episodi salienti e cruciali del "cunto": una sequenza di suoni granulari e liquescienti sullo sfondo di impercettibili scorie elettriche, una superficie ondulata e statica sulla quale si disegnano le voci acute di un lontanissimo lamento, lo zig zag improvviso dei residui impazziti di una macchina sonora inceppata, lo scricchiolio di una creatura lignea che cede sotto il peso di una massa caotica di residui sonori, una altissima canna d'organo che soffia una nota acuta e costante, sovrastata da una nuvola nera e metallica di suono acido, il martelletto ossessivo di un pianino meccanico che percuote se stesso, un pentolone bollente di voci streghesche, un gracidare di creature acquatiche e fredde, il suono macchinale di un giocattolo elettrico inceppato, il trillo di uno strumentino per bambini che si "incanta", una corda lenta che vibra senza sforzo, impulsi di aggeggini elettronici "poveri" che si lasciano cadere esausti, inerti e orribilmente sfibrati. (Guido Barbieri)
Nella decifrazione e nella interpretazione di suono, o di una sequenza ordinata di suoni, il "punto di ascolto" è invece una questione cruciale: sia nell'universo infinitamente articolato della musica scritta, sia nel dominio altrettanto complesso dei suoni artificiali, quei suoni "speciali" cioè che non si possono facilmente tradurre in segni. Evitando con un balzo la dimensione oggettivante della musica letta (o anche semplicemente leggibile) la musica cosiddetta "elettronica" attribuisce involontariamente alla dimensione soggettiva dell'ascoltatore una funzione interpretativa cruciale, elevando il "punto di ascolto" ad un autentico parametro strutturale. Il tasso di soggettività e dunque di arbitrarietà ermeneutica subisce di conseguenza uno strepitoso balzo all'insù, allargando in maniera a volte spettacolare, ma anche straordinariamente fertile, la forchetta percettiva tra il produttore del suono e il suo consumatore.
Se si sceglie un "punto di ascolto" libero da ogni condizionamento strutturale (quello che porta a ricercare necessariamente una forma, una logica sintattica e una coerenza grammaticale) un pezzo come Swallow I di Stefano Trevisi rivela ad esempio una fortissima componente mimetica: la "glossolalia" iniziale che attraverso la Masticazione di Claudia Castellucci simula l'atto del mangiare si trasforma immediatamente in una sorta di "glossofagia" in cui i suoni si fanno essi stessi cibo, diventano oggetti "mangiabili", ma terribilmente indigesti: i bordi del suono vengono mangiucchiati, rosicchiati, nel vano tentativo di renderli commestibili. Il risultato è la rappresentazione angosciosa della impossibilità stessa di trasformare il cibo in nutrimento: la bulimia del suono si trasforma nel suo esatto contrario, una potenziale anoressia del linguaggio. Sulla "tavola sonora" va in scena, così, una sorta di devastata ars comendi che si consuma nel grufolare compulsivo di un animale meccanico, nella ricerca febbrile di un eccesso di cibo e nella speculare impossibilità di assimilarlo.
Il "punto di ascolto" dal quale sentire, fisicamente, Disphase, il brano di Stefano Scarani, è invece quello del testo, un testo (sorpresa…) frequentemente intelleggibile, generato da incubi intimi e visioni "private" e che dunque non può, letteralmente, tacere. La parola diventa dunque il soggetto della propria moltiplicazione fonetica, ma i suoni che nascono da questa "partenogenesi" non perdono un'unghia, mai, del loro senso. A volte non cedono nemmeno le proprietà del loro significato. Suono, senso e significato entrano, anzi, in una sorta di movimento a spirale lungo il quale si raccolgono i brandelli, i profumi, di un ricordo infantile, di uno spavento, di una risata, di una favola raccontata a voce bassa prima di dormire. Il suono non verbale, il materiale puramente elettronico che si intarsia con la voce, assume però, nel finale, una curiosa cerimonialità, una fissità celebrativa e "funebre" che gradualmente si scompone in rifiuti, scorie, scarti di suono.
L'ascolto di Incubi, il pezzo di Angelo Benedetti, non richiede, al contrario, un solo punto, ma una rete di tanti, diversi centri di attenzione. La scrittura sonora sembra del resto incardinata, forse involontariamente, intorno al cosiddetto procedimento retorico dell'ipotiposi, che consiste nell'offrire un'immagine "visiva" di un oggetto verbale o sonoro. I suoni fissi, "stirati", quasi allungati che si colgono all'inizio cominciano subito a ruotare lentamente nello spazio sonoro e a disegnare orbite costantemente circolari. Dopo una breve transizione statica, legnosa, inizia a germogliare un sottobosco di voci sussurrate, una selva oscura e brulicante di minuscoli animali sonori che si muovono rapidamente in un ambiente umido e notturno. Gli unici suoni "concreti" che entrano nel quadro visivo, voci di radio e di città rumorose, vengono subito divorati da una creatura sonora aggressiva, metallica, impettita che si muove con un passo rigido e meccanico. Il suo profilo è però sfocato, circondato da un alone luminoso che gli fa da aureola, da corona o da eco. Verso la conclusione del tragitto lo sguardo coglie ancora qualche oggetto spiraliforme, insinuante, gravido di umidità che disegna curve sinuose, a tratti esauste, quasi cadenti. E la conclusione è solo vento senza materia, senza corpo, né direzione.
È una linea diritta e decisa, invece, quella tracciata, ad onta del titolo, da Pallide risonanze avvolte, l'"inventio" di Massimo Biasioni: tanto da ancorare l'ascolto ad un punto rigido, scritto con l'inchiostro nero, quello dell'antico, negletto e splendente, virtuosismo strumentale. Entra (o torna) in scena il sonatore virtuoso, l'inventore di toccate e fantasie, l'architetto di spirali e ricami. Che infatti, affidandosi alle impertinenze dello "stockhauseniano" corno di bassetto, inizia subito a disegnare volute e ornamenti finissimi, a tratti persino spudoratamente "belcantistici". La bellezza del suono puro lascia dietro di sé solo piccole scorie degradate di suono sporco, ma il "conducator" non flette il suo collo di cigno: si inalbera, geme, si inabissa, si intigna in suoni grappolosi, indugia negli sforzando e stira sino allo spasimo i glissando. Poco prima del "game over" la sfida tra il virtuoso e il suo doppio elettronico si incrudelisce: sul terreno di battaglia gonfia i muscoli un crescendo armigero, agonico, quasi da duello all'arma bianca, che poi però si sfianca in strisce di suono granuloso: il moto si fa ondivago e incerto, quasi cieco e dimesso. La fine è un cinguettio meccanico che sembra uscito dalla macchina "omonima" di Paul Klee: il collo del cigno si piega verso il velo dell'acqua e intona colori ingrigiti e smorti, tinte più "pallide e avvolte", appunto.
Il "punto ideale" dal quale mettersi all'ascolto del brano di Francesco Galante, è invece, senza ambiguità, quello suggerito dal titolo: Retroscena. Non proprio un angolo appartato "dietro" il palcoscenico, forse, ma un rettangolo o un cerchio disegnati sulla scena di quel teatro tutto interiore, e clamorosamente rumoroso, che è il "teatro della phoné" di Carmelo Bene. Il "suono fondamentale" che nasce sulla scena è fisso, leggermente ondulato, come un trillo lento e prolungato. Da questo involucro cerca di uscire a fatica, lacerando la superficie del bozzolo, una vocina animalesca e scomposta, spezzata in tante pieghe, accartocciata su se stessa, ancora impiastricciata del suo liquido amniotico. È una vox vocis, una voce intemerata e mitica, leggendaria e astrale, la voce "fonica" di Carmelo ("la riconoscerai tra mille!"). Una frase nitida e clonata, poi pulviscolo sonante, fruscio sommerso, sul quale si infila come un cuneo la voce stentorea e tonante dell'Attore. Ancora lo sforzo del suono di uscire da una prigione, da una gabbia di parole degradate ed attorcigliate su se stesse, colte in una recita infantile, e poi nel finale il ricordo, quasi in forma di catalogo, dei materiali, dei reperti fonici che la voce di Carmelo ha abbandonato sulla via di un potenziale, utopico, "teatro elettronico".
Utopia per utopia: se esistesse un analogon acustico del "trompe l'oeil" visivo, una sorta di "trompe l'oreille" sonoro, un pezzo prismatico come Field di Vincenzo Gualtieri troverebbe in un lampo il suo punto d'ascolto. Il gioco a cui viene invitato l'ascoltatore potenziale è infatti quello del "mostra e nascondi": ti faccio sentire il suono di un oggetto concreto (pioggia, acqua gelata, vento, campane), ma subito nascondo la mano dietro la schiena e ti dico che in realtà la "cosa" che ascolti non è altro che musica, suono creato da strumenti squisitamente musicali. Non "musique concrète", bensì "musique sonore". I suoni gocciolanti e liquidi e curiosamente "mimetici" che si colgono nell'incipit, ad esempio, lasciano subito affiorare un idioma schiettamente pianistico, anche se la mano rapida di un disegnatore traccia il profilo di alcuni dei parenti prossimi del pianoforte: il gamelan giavanese, il "prepared piano" di John Cage. E come in un gioco di domino dalla pancia del pianoforte emergono le sue viscere: le corde. Un arco che stride su una cordiera, una lenta khora africana, un'arpa dai suoni gelati, persino il ricordo di un vago theremin insinuante e insistente. Ma l'idioma della "liquidità" oscura rapidamente la mappa: ancora la pioggia meccanica, l'acqua gelida, le gocce di mare. Qualcuno o qualcosa riesce però a tenere la testa fuori dall'acqua, a non annegare: è un piccolo cembalo giocattolo che intona, distrattamente, una musique enfantine lontanissima e nostalgica.
Anche il pezzo di Elio Martusciello, Presenti successivi, possiede, come gli altri che lo precedono, una forte propensione narrativa. Ma in questo caso il modo del racconto è uno dei più antichi che si conoscano: quello del cantastorie, del narratore di "cunti" che con la sua bacchetta mostra al pubblico i quadri delle leggenda. Ecco allora che scorrono, dal nostro punto di ascolto, gli episodi salienti e cruciali del "cunto": una sequenza di suoni granulari e liquescienti sullo sfondo di impercettibili scorie elettriche, una superficie ondulata e statica sulla quale si disegnano le voci acute di un lontanissimo lamento, lo zig zag improvviso dei residui impazziti di una macchina sonora inceppata, lo scricchiolio di una creatura lignea che cede sotto il peso di una massa caotica di residui sonori, una altissima canna d'organo che soffia una nota acuta e costante, sovrastata da una nuvola nera e metallica di suono acido, il martelletto ossessivo di un pianino meccanico che percuote se stesso, un pentolone bollente di voci streghesche, un gracidare di creature acquatiche e fredde, il suono macchinale di un giocattolo elettrico inceppato, il trillo di uno strumentino per bambini che si "incanta", una corda lenta che vibra senza sforzo, impulsi di aggeggini elettronici "poveri" che si lasciano cadere esausti, inerti e orribilmente sfibrati. (Guido Barbieri)