2a edizione
2° CD Call
Punti di Ascolto
opere di musica elettroacustica
Brani inclusi nel CD:
1. Massimo Carlentini riversi Mondi diversi (2003)
per violino ed elettronica [ 11'09"]
Diego Conti violino
Produzione: Edison Studio di Roma
2. Marco Marinoni Wahn (2005)
per pianoforte ed elettronica [ 7'24"]
Marco Marinoni pianoforte
Produzione: studio dell'autore.
Progetto live electronics a cura di Davide Tiso
3. Massimo Mariani Six - o - Four (2003)
per nastro 8 canali e voce preregistrata (versione Stereo) [ 9'39"]
Liliana Bancolini voce
Produzione: Sonic Studio - Simon Fraser University di Vancouver (Canada)
4. Franco Degrassi Luminal (2003)
per supporto digitale [ 7'45"]
Produzione: studio dell'autore
5. Tommaso Perego Les jeux sont faits (2005)
per violino ed elettronica [ 6'00"]
Eloisa Manera violino
Produzione: mixaggio presso il Mamito studio di Milano e registrazione presso il Tupa studio di Milano
6. Mario Bajardi Bjm Piano Studio (2003) per nastro [ 8'41"]
Produzione: studio dell'autore
7. Giancarlo Turaccio Trisì (2004)
per sassofono contralto, trombone tenor-basso e suoni elettronici [ 10'37"]
Michele Lomuto trombone
Gianpaolo Antongirolami sassofono
Produzione: live recording 14/5/2004 presso il Conservatorio di Musica di Napoli nell'ambito di "I Venerdì Musicali"
per violino ed elettronica [ 11'09"]
Diego Conti violino
Produzione: Edison Studio di Roma
2. Marco Marinoni Wahn (2005)
per pianoforte ed elettronica [ 7'24"]
Marco Marinoni pianoforte
Produzione: studio dell'autore.
Progetto live electronics a cura di Davide Tiso
3. Massimo Mariani Six - o - Four (2003)
per nastro 8 canali e voce preregistrata (versione Stereo) [ 9'39"]
Liliana Bancolini voce
Produzione: Sonic Studio - Simon Fraser University di Vancouver (Canada)
4. Franco Degrassi Luminal (2003)
per supporto digitale [ 7'45"]
Produzione: studio dell'autore
5. Tommaso Perego Les jeux sont faits (2005)
per violino ed elettronica [ 6'00"]
Eloisa Manera violino
Produzione: mixaggio presso il Mamito studio di Milano e registrazione presso il Tupa studio di Milano
6. Mario Bajardi Bjm Piano Studio (2003) per nastro [ 8'41"]
Produzione: studio dell'autore
7. Giancarlo Turaccio Trisì (2004)
per sassofono contralto, trombone tenor-basso e suoni elettronici [ 10'37"]
Michele Lomuto trombone
Gianpaolo Antongirolami sassofono
Produzione: live recording 14/5/2004 presso il Conservatorio di Musica di Napoli nell'ambito di "I Venerdì Musicali"
CD prodotto da Federazione CEMAT con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Direzione Generale dello Spettacolo dal vivo. Master realizzato presso Federazione CEMAT in collaborazione con Auditorium Edizioni di Milano
Coordinamento: Fabio Cifariello Ciardi, Gianni Trovalusci
Mastering e realizzazione del Cd Rom: Carlo Di Giugno
Progetto grafico: Elena Marelli
Redazione: Francesca Aragno
Traduzioni: Anne Penney Ricotti, Salvatore Marra
Coordinamento: Fabio Cifariello Ciardi, Gianni Trovalusci
Mastering e realizzazione del Cd Rom: Carlo Di Giugno
Progetto grafico: Elena Marelli
Redazione: Francesca Aragno
Traduzioni: Anne Penney Ricotti, Salvatore Marra
Le registrazioni dei singoli brani inclusi nel Cd sono state realizzate a cura degli autori presso i propri studi o presso i Centri di produzione menzionati.
Si ringrazia: Ministero degli Affari Esteri, Elio Menzione (vicedirettore Promozione e Cooperazione Culturale Ministero Affari Esteri), Addetti Unità Collezione Farnesina, prof. Maurizio Calvesi, Omar Galliani.
Si ringrazia: Ministero degli Affari Esteri, Elio Menzione (vicedirettore Promozione e Cooperazione Culturale Ministero Affari Esteri), Addetti Unità Collezione Farnesina, prof. Maurizio Calvesi, Omar Galliani.
La voce di Io
Chissà come è venuto in mente al vecchio Heinrich Besseler, musicologo pedante e passabilmente noioso, di scrivere, nel bel mezzo degli orribili anni Settanta, una "Storia dell'ascolto musicale": una storia della musica, cioè, vista dalla parte di chi possiede soltanto orecchie per sentire! Si tratta di un libretto smilzo e leggerino, dall'aria modesta e poco appariscente, che però fa piazza pulita, una volta tanto, di tutte le altre storie convenzionali, quelle scritte dal punto di vista di chi la musica la compone o di chi, al massimo, la esegue. Un bello schiaffo, bisogna dire, agli storici parrucconi, agli analisti con l'occhio appiccicato al microscopio, ai critici con gli occhialini posati sul naso. Anche perché al vispo Enrico non interessano affatto i dati "materiali" che appassionano i sociologi della musica: le sue fonti sono quelle, classiche, della vetusta wissenschaftmusik: manoscritti, autografi, copie a stampa, edizioni originali. Musica scritta, insomma, e non registri contabili, contratti di affitto o liste della spesa. E dalla consultazione attenta delle fonti (nient'altro che da queste) viene fuori, a sorpresa, che ogni epoca, ogni grande era culturale, ha ascoltato la musica a modo suo, seguendo "paradigmi", come si dice, del tutto differenti. Fino all'epoca della Controriforma, ad esempio, il modello prevalente è stato quello "testuale", basato sull'ascolto del significato di un testo extra-musicale; durante il "siglo de oro", invece, domina il modello "formale" che chiama l'ascoltatore a decifrare una forma musicale autonoma rispetto al testo. Tutto cambia nel secolo dei Lumi quando si afferma il paradigma dell'ascolto "sintetico", fondato cioè sulla comprensione di unità formali di grande ampiezza e di grande estensione; fino a giungere al gran secolo romantico, attraversato come un fiume dal modello dall'"ascolto passivo", grazie al quale l'ascoltatore si affida fiducioso al flusso indistinto del suono e al suo potere incantatorio.
"Balle sociologiche", come sentenziò Massimo Mila dopo la lettura (forse un po' distratta) della "Filosofia della musica moderna" di Adorno? Probabile. Ma il metodo di Besseler è rigoroso e le conclusioni originali. Il rammarico più serio è semmai che il vecchio Heinrich si sia fermato sul più bello, alle soglie del Novecento, senza nemmeno chiedersi se il "secolo breve" possieda un "modello di ascolto" tutto suo, diverso da quelli praticati durante i secoli lunghi. Domanda sin troppo seria alla quale (forse) risponderanno seriamente i posteri: intanto, però, una risposta allegra e spericolata, così quasi per gioco, la si può forse tentare. Chiamando a testimoniare però (a sua totale insaputa) un altro scienziato della musica, assai meno anziano, e meno noioso, del suo collega tedesco: Mario Baroni, musicologo dalle spiccate inclinazioni pedagogiche, che qualche mese fa ha affidato ad un libro del tutto atipico il risultato dei suoi "esperimenti di ascolto", inflitti alle cavie volontarie dei suoi studenti. Il volume si intitola "L'orecchio intelligente", ma soprattutto si sottotitola "Guida all'ascolto delle musiche non familiari". Ecco la folgorazione: per motivi che in questo momento è più comodo intuire che spiegare sorge il fondato sospetto che tutte le musiche del Novecento, siano esse simboliste o dodecafoniche, espressioniste o seriali, neoclassiche o elettroacustiche, siano sempre, a causa della loro intrinseca natura di "oggetti difficilmente identificabili, "non familiari": al primo, al secondo, al terzo o all'ennesimo ascolto. E che tali siano destinate a rimanere. Data per buona la folgorazione (e ci sarebbe da discutere, ma non qui e non ora) rimane il dubbio: i criteri di ascolto delle musiche "familiari" valgono anche nel caso delle musiche "non familiari"? A occhio e croce no, verrebbe da rispondere. Assale il dubbio, al contrario, che un "ascolto non familiare" richieda un "protocollo" basato su categorie del tutto diverse, forse meno scientifiche, più intuitive. Ma quali?
Di solito se ci disponiamo all'ascolto di musiche conosciute (individualmente o collettivamente, non importa) tendiamo a concentrarci su parametri tutto sommato classici e prevedibili: il ritmo, il timbro, la forma, la melodia, l'armonia, a seconda delle nostre conoscenze e delle nostre capacità. Ma quando agiamo o subiamo l'esperienza di musiche ignote (perché mai eseguite prima o perché mai ascoltate prima) la nostra attenzione viene generalmente attirata da elementi apparentemente laterali o marginali: la rapidità o la lentezza, ad esempio, oppure la densità di eventi sonori in una unità di tempo oppure ancora il rapporto tra i vuoti e i pieni. Tutte cose che appartengono in tutto e per tutto alla "materia di cui son fatti i suoni", ma che difficilmente rientrano nei parametri abitualmente presi in esame dagli analisti. Il fatto è che le musiche non familiari, anche se provengono da una fonte inequivocabilmente scritta, possiedono per noi ascoltatori "vergini" una sorta di "statuto orale" che le rende assai più simili alle musiche non scritte di quanto non accada alle musiche note. Nessuno, grazie al cielo, ha ancora compilato un "protocollo di ascolto delle musiche non familiari" e dunque l'inventario delle voci è ancora aperto e lontano dall'essere completo. L'occasione di questa nuova "Call" è però preziosa e consente di mettere alla prova la nostra fantasia di ascolto e la nostra capacità di inventare, sul corpo dei suoni, categorie percettive nuove e non ancora sperimentate: la musica elettroacustica, del resto, a causa del rapporto sempre problematico con la scrittura, possiede per sua natura una sorta di latente e implicita "oralità" che la rende un caso speciale, ed estremo, di "non familiarità". Al quale è quasi irresistibile rivolgersi declinando fatalmente il soggetto "io" piuttosto che l'oggetto "tu".
Il pezzo di Massimo Carlentini, riversi Mondi diversi, svela ad esempio l'esistenza di una piccola serie di coppie percettive molto frequenti nelle strategie spontanee di ascolto. Sin dalle stringhe temporali iniziali avverto infatti la presenza di suoni estremamente ravvicinati, privi di qualsiasi spazio di separazione: impossibile quindi organizzare una qualsiasi forma di articolazione del discorso sonoro. E infatti la mia attenzione si sposta immediatamente dalla coppia contiguo/separato alla coppia acuto/grave: mi colpisce un ostinato costante di suoni granulosi a cui si contrappone l'urlo acutissimo di una corda "elettrica" che sembra quasi riprodurre il gesto manierato di una chitarra rock. Il contrasto topologico è sin troppo elementare, quasi brutale, e infatti compare un "terzo" elemento, difficile da definire: una sorta di massa pulviscolare in cui mi sembra di distinguere qualcosa che assomiglia ad una serie di falsi impulsi-radio. Il "perturbante" (Freud lo definisce "una realtà inconsueta, nuova, non familiare" e noi sentiamo un po' aria di casa) conduce ad una nuova opposizione: quella tra presenza e assenza; sullo schermo sonoro sento adesso un rumore di corda, una corda battuta e stirata, di cui avverto la vicinanza, la presenza ingombrante, ma intuisco anche, in lontananza l'esistenza di una superficie sonora piatta, senza grandi rilievi, solo piccole buche e grinze di terra corrugata. Le distanze e le presenze sembrano dunque acquisite, ma irrompe sulla scena un suono curiosamente "realistico", quasi di oggetti solidi che finiscono letteralmente in pezzi. È solo il preludio, però, nuovamente perturbante, allo choc di un enorme, smisurato, inconcepibile silenzio oltre il quale si intravede nuovamente, ma questa volta ridotto alla sua materia pura e incontrastata, l'ostinato battente della corda elettrica.
Anche il pezzo di Marco Marinoni, Wahn, sembra generato dalla contrapposizione "acustica" tra contiguità e separazione, ma l'enfasi è posta, sin dall'inizio, sulla distanza tra gli avvenimenti sonori piuttosto che sulla loro prossimità. Se non mi lascio "sedurre" dalla violenza fonica dell'incipit, colgo immediatamente, infatti, una sorta di gerarchia tra gli oggetti sonori: in un generico "sopra" (topologico, dinamico, materico) avverto una serie di punti di suono particolarmente timbrati, degli apici di materia, e in un altrettanto generico "sotto" una sostanza densa, grezza, non lavorata, quasi allo stato naturale. So che punti e massa non hanno lo stesso valore e capisco che le fasce continue di suono servono da collegamento tra un apice e l'altro. Mi sembra di avvertire dunque una qualche forma di sintassi che collega tra loro i singoli punti. Ma non riesco ancora a capire quale: i punti infatti non seguono un impulso ritmico regolare, ma disegnano soltanto curve ascendenti e discendenti, seguendo il moto pendolare del crescendo e del diminuendo: mi accorgo di essere di fronte ad una nuova categoria percettiva: il contrasto tra punto e linea. Che non mi aiuta però a decifrare la sintassi sotterranea presente, ma nascosta. Ad un certo punto, cercando di non farmi distrarre dal "disturbo" di oggetti che si spezzano e di corde che emettono respiri impercettibili, riesco a capire che la sintassi è data dai silenzi, dai silenzi apparentemente casuali che separano una stringa di suono da un'altra: dopo ogni silenzio c'è una metamorfosi, dopo ogni dispersione della materia (fade-out) c'è un addensamento (fade-in), e colgo le frasi che i silenzi separano come un discorso, anche se continuamente interrotto. Alla fine però un approdo c'è: è il suono rotondo, flou, di quello che, lo capisci all'improvviso, è un pianoforte: una lancinante "immagine" reale che ti resta addosso fino all'ultimo istante, anche se "qualcuno" colpisce "qualcosa" con una violenza di suono che significa soltanto "fine".
Il pezzo di Massimo Mariani, Six - O - Four, consente di compiere, invece, un'altra fondamentale esperienza percettiva: quella che scaturisce dal contrasto elementare tra mobilità e staticità. O meglio ancora: consente di vivere l'esperienza (tipicamente varesiana) del movimento del suono nello spazio. L'incipit è affidato ad un suono fisso, costante, di media frequenza. Quasi istintivamente mi chiedo: esistono una fonte, un percorso, una direzione, un punto di arrivo? Ha senso pormi questa domanda? I due punti interrogativi rimangono sospesi fino a che l'attenzione non si sposta verso la superficie sulla quale il suono costante sembra disegnarsi: è fatta di una strana materia filamentosa, quasi una ragnatela, che però mi appare, in contrasto con il suono fisso, assolutamente immobile, statica, piatta. Improvvisamente, attraverso l'immobilità, il suono costante non solo acquista movimento, ma ne colgo tutte le caratteristiche spaziali: provenienza, direzione, punto di arrivo. La chiarezza topologica, però, è di breve durata: nel suo movimento il suono fisso compie una "vistosa" (l'aggettivo è improprio, ma il termine "uditosa" non è contemplato dalla lingua italiana) metamorfosi dinamica: "intona", per così dire, un crescendo impressionante che non può non giungere al punto di rottura. Da questo momento in poi le categorie percettive cambiano di segno. Al massimo grado di entropia sonora si sostituisce infatti, bruscamente e inevitabilmente, uno stato di quasi totale assenza di suono: al pieno, succede il vuoto, al continuum, il discreto. Ecco che allora mi trovo ad associare quasi inconsciamente il movimento con il pieno e la stasi con il vuoto: una condizione percettiva instabile che richiede perentoriamente una "risoluzione". E infatti l'attesa viene interrotta dall'apparizione di un altro elemento "realistico", perfetto pendant del pianoforte di Wahn: la voce. Un "sospetto" di voce, per la verità, una lingua accartocciata che non riesce a spiegarsi e che non articola alcuna parola: corde vocali attorcigliate che possono pronunciare soltanto pulviscoli, detriti, scorie di suono impuro.
La visione dello spazio sonoro offerta dal pezzo di Franco Degrassi, Luminal, è del tutto diversa: per un verso topologicamente più precisa e per l'altro, di conseguenza, assai più astratta. Nelle prime "misure" (in effetti lo spazio ha bisogno di essere misurato!) avverto subito una distinzione di cui non avevo ancora avuto esperienza: quella tra "destra" e "sinistra": non è solo l'effetto del banale sdoppiamento stereofonico dei canali di emissione: è invece il risultato di un vero e proprio trattamento sonoro della materia fonica che distingue il suono "aperto" (dinamicamente in espansione) dal suono "chiuso" (che tende cioè all'assorbimento): per una ragione percettiva che rimane (al mio orecchio) misteriosa, tendo ad identificare con la sinistra il suono chiuso e con la destra il suono aperto, disegnando dunque una sorta di "corridoio" sonoro apparentemente sgombro di ostacoli. Ma anche in questo caso una sorta di "drammaturgia latente" che sembra spesso accompagnare il suono elettronico, impone una svolta, un incidente, un "perturbante". A turbare la linearità rettilinea e rassicurante del "corridoio" interviene una sorta di incidente "meccanico", un inceppamento inatteso. Il respiro del suono si fa improvvisamente corto: sembra di sentire una ghiera dentata che ne fa ruotare un'altra, ma un dente è spezzato e il moto è ansimante, irregolare, strappato. Come spesso accade quando un meccanismo complesso entra in crisi il "virus" dell'anomalia si diffonde rapidamente a tutte le parti della macchina: che infatti comincia a respirare in modo quasi doloroso. Il suono denso, magmatico, scuro del congegno entra in conflitto con il nervo acustico, lo sollecita con violenza, lo attacca, lo fa quasi sanguinare: è l'esperienza, nuova, del disagio acustico, della piccola tortura, che alla fine lascia la sensazione di un vuoto spossato, di uno sfondo senza figura, di una macchina celibe privata del suo meccanismo vitale.
Anche il pezzo di Tommaso Perego, Les jeux sont faits, presenta una costruzione topologica "astratta", fondata su reticoli spaziali lineari e definiti, ma induce ad esperire una condizione percettiva nuova, fondata essenzialmente sul procedimento dell'accumulazione e del condensamento. L'incipit, per la verità, riconduce all'idea, già sperimentata, di pulsazione: colgo un battito sonoro regolare che aumenta e diminuisce d'intensità, giocando sulla contrapposizione tra presenza e assenza, svelamento e nascondimento. Ma la pulsazione viene assorbita rapidamente da una sorta di nuvola gassosa e leggera, formata dai bip-bip inarticolati di aggeggini elettrici rotti che giacciono, smontati, su una superficie lucida e compatta. Il pulviscolo si raddensa (ed ecco che appare in limine, per la prima volta, la figura dell'accumulazione) e libera nuovamente un suono fisso e costante, leggermente ondulato, che sembra attraversare una fila di stracci di suono rimasti appesi a "qualche cosa". Adesso il gioco della presenza assenza assume un moto pendolare e vagamente incantatorio. Ho la sensazione precisa che il suono ondulato compia un movimento circolare: prima mi passa davanti, vicinissimo, poi si allontana, disegna un anello perfetto e alla fine ritorna esattamente al punto di partenza. Il movimento però si esaurisce rapidamente e lascia, come scorie del suo passaggio, una moltitudine caotica di oggetti sonori corti, senza estensione, dispersi in uno spazio vuoto. Ma nel "finale" una sorta di calamita invisibile sembra attirare a sé i frammenti, li carica di energia e li fa vorticare, come nel cuore di un micro uragano. Mano a mano che la velocità del moto vorticoso aumenta la "pila" dei suoni elettrici si carica assorbendo e restituendo l'energia cinetica accumulata. Ecco: adesso l'esperienza della condensazione acquista una precisa dimensione visiva e si dispone lungo i confini spaziali della destra e della sinistra. La conclusione è brutale, imprevista, lucidamente antiretorica.
La prima esperienza sonora che il pezzo di Mario Bajardi, BJM Piano Studio, invita a compiere è invece quella del "pieno". Un pieno totale, senza il correlativo del vuoto, un insieme compatto che non sembra mostrare crepe e fenditure. L'incipit è dato da una sorta di continuum metallico, e mi convinco per qualche ragione di essere di fronte ad una lastra levigata che risuona senza essere percossa: mi vengono in mente (ma forse è l'effetto di un residuo "realistico" di immaginazione) le lamine di rame che si usano a teatro per produrre il rumore del tuono. Mi rendo conto comunque di essere di fronte ad una fonte sonora che appare potenzialmente inesauribile, che non consoce il piano, il poco o il niente, che produce al contrario una stato costante di massima tensione. Anche in questo caso al climax deve (necessariamente?) corrispondere l'anticlimax. Che infatti, puntualmente, arriva e assume l'aspetto di una nuova coppia percettiva, quella che gioca sulla contrapposizione astratto/concreto. Fino al punto di crisi del climax, infatti, il suono è delocalizzato e astratto, ma in cima alla salita, proprio sulla cresta del crinale oltre il quale si apre la discesa, intervengono, inattesi, alcuni "rumori fuori scena" che sembrano possedere la materialità dei suoni concreti: escoriazioni, screpolature, fenditure, slabbramenti. Mi assale il sospetto che lo spazio dei nuovi oggetti perturbanti sia proprio quello, metallico, della lastra, e ho la sensazione che la sua superficie, incrinata dai colpi di un martello immaginario, stia per cedere, sia vicina al punto di rottura. Ma accade qualche cosa di nuovo: lo spessore del suono, improvvisamente, si verticalizza, assume un andamento ascensionale, la massa metallica si disperde e si condensa, si alleggerisce e si raddensa, seguendo il ritmo di una espirazione naturale: un larghissimo silenzio introduce ad un paesaggio sonoro violento, in cui cadono, da un "dove" nuovamente indeterminato, colpi pesanti e secchi, appena addolciti dalle risonanze lontane di corde in vibrazione: il concreto ha di nuovo ceduto lo spazio sonoro all'astratto.
Con il pezzo di Giancarlo Turaccio, Trisì, ci troviamo di fronte, infine, ad una condizione di ascolto inedita che ci porta a sperimentare la divaricazione percettiva tra la condizione di simultaneità e quella di divaricazione. O più precisamente tra quella particolare epifania di simultaneità che è data dal parallelismo tra le voci e quella forma speciale di divaricazione che è rappresentata dalla diafonia. Il meccanismo sonoro iniziale è di tipo palesemente accumulativo: l'incipit propone un suono puro, isolato, che sembra tendersi ad arco in uno spazio perfettamente vuoto. A questa prima linea di suono se ne affianca poi un'altra che corre in modo sostanzialmente parallelo rispetto alla precedente: ed io provo la sensazione della ideale coincidenza di due elementi orizzontali identici, ma perfettamente distinguibili. Le due monodie parallele però, seguendo l'inevitabile metamorfosi dei processi cinetici, non tardano a divaricarsi e realizzano ben presto una arcaica diafonia che sovrappone suoni fissi e suoni mobili intrecciati in un ordito fittissimo. Faccio appena in tempo dunque a cogliere il fenomeno "spettacolare" dello sdoppiamento del suono, insomma, e alla trama sonora si sono aggiunti altri cento fili che tendono alla caotica entropia dell'ordito polifonico. Anche in questo caso, però, l'indeterminatezza del caos deve lasciare il posto ad un principio di individuazione sonora più semplice ed accessibile (l'eccesso di informazione non può durare, drammaturgicamente, all'infinito). E difatti, preparata da un lungo ponte mobile, appare a sorpresa, come sulla scena di un teatrino immerso nell'oscurità, la nostalgica perorazione solista di un sassofono sfocato che canta, in lontananza, uno standard inconfondibilmente jazzistico. In questo istante vivo l'esperienza della divaricazione straniante tra due universi in conflitto: da una lato le scorie di un "sound" storicamente determinato e riconoscibile e dall'altro le pulsazioni magmatiche di una materia sonora in costante ebollizione. La ricomposizione avviene nel segno di una dilatazione parossistica del tempo sonoro: sabbie mobili che nel moto lentissimo della loro superficie inghiottono, senza farli più emergere, i due "attori" e le loro rispettive scene.
"Balle sociologiche", come sentenziò Massimo Mila dopo la lettura (forse un po' distratta) della "Filosofia della musica moderna" di Adorno? Probabile. Ma il metodo di Besseler è rigoroso e le conclusioni originali. Il rammarico più serio è semmai che il vecchio Heinrich si sia fermato sul più bello, alle soglie del Novecento, senza nemmeno chiedersi se il "secolo breve" possieda un "modello di ascolto" tutto suo, diverso da quelli praticati durante i secoli lunghi. Domanda sin troppo seria alla quale (forse) risponderanno seriamente i posteri: intanto, però, una risposta allegra e spericolata, così quasi per gioco, la si può forse tentare. Chiamando a testimoniare però (a sua totale insaputa) un altro scienziato della musica, assai meno anziano, e meno noioso, del suo collega tedesco: Mario Baroni, musicologo dalle spiccate inclinazioni pedagogiche, che qualche mese fa ha affidato ad un libro del tutto atipico il risultato dei suoi "esperimenti di ascolto", inflitti alle cavie volontarie dei suoi studenti. Il volume si intitola "L'orecchio intelligente", ma soprattutto si sottotitola "Guida all'ascolto delle musiche non familiari". Ecco la folgorazione: per motivi che in questo momento è più comodo intuire che spiegare sorge il fondato sospetto che tutte le musiche del Novecento, siano esse simboliste o dodecafoniche, espressioniste o seriali, neoclassiche o elettroacustiche, siano sempre, a causa della loro intrinseca natura di "oggetti difficilmente identificabili, "non familiari": al primo, al secondo, al terzo o all'ennesimo ascolto. E che tali siano destinate a rimanere. Data per buona la folgorazione (e ci sarebbe da discutere, ma non qui e non ora) rimane il dubbio: i criteri di ascolto delle musiche "familiari" valgono anche nel caso delle musiche "non familiari"? A occhio e croce no, verrebbe da rispondere. Assale il dubbio, al contrario, che un "ascolto non familiare" richieda un "protocollo" basato su categorie del tutto diverse, forse meno scientifiche, più intuitive. Ma quali?
Di solito se ci disponiamo all'ascolto di musiche conosciute (individualmente o collettivamente, non importa) tendiamo a concentrarci su parametri tutto sommato classici e prevedibili: il ritmo, il timbro, la forma, la melodia, l'armonia, a seconda delle nostre conoscenze e delle nostre capacità. Ma quando agiamo o subiamo l'esperienza di musiche ignote (perché mai eseguite prima o perché mai ascoltate prima) la nostra attenzione viene generalmente attirata da elementi apparentemente laterali o marginali: la rapidità o la lentezza, ad esempio, oppure la densità di eventi sonori in una unità di tempo oppure ancora il rapporto tra i vuoti e i pieni. Tutte cose che appartengono in tutto e per tutto alla "materia di cui son fatti i suoni", ma che difficilmente rientrano nei parametri abitualmente presi in esame dagli analisti. Il fatto è che le musiche non familiari, anche se provengono da una fonte inequivocabilmente scritta, possiedono per noi ascoltatori "vergini" una sorta di "statuto orale" che le rende assai più simili alle musiche non scritte di quanto non accada alle musiche note. Nessuno, grazie al cielo, ha ancora compilato un "protocollo di ascolto delle musiche non familiari" e dunque l'inventario delle voci è ancora aperto e lontano dall'essere completo. L'occasione di questa nuova "Call" è però preziosa e consente di mettere alla prova la nostra fantasia di ascolto e la nostra capacità di inventare, sul corpo dei suoni, categorie percettive nuove e non ancora sperimentate: la musica elettroacustica, del resto, a causa del rapporto sempre problematico con la scrittura, possiede per sua natura una sorta di latente e implicita "oralità" che la rende un caso speciale, ed estremo, di "non familiarità". Al quale è quasi irresistibile rivolgersi declinando fatalmente il soggetto "io" piuttosto che l'oggetto "tu".
Il pezzo di Massimo Carlentini, riversi Mondi diversi, svela ad esempio l'esistenza di una piccola serie di coppie percettive molto frequenti nelle strategie spontanee di ascolto. Sin dalle stringhe temporali iniziali avverto infatti la presenza di suoni estremamente ravvicinati, privi di qualsiasi spazio di separazione: impossibile quindi organizzare una qualsiasi forma di articolazione del discorso sonoro. E infatti la mia attenzione si sposta immediatamente dalla coppia contiguo/separato alla coppia acuto/grave: mi colpisce un ostinato costante di suoni granulosi a cui si contrappone l'urlo acutissimo di una corda "elettrica" che sembra quasi riprodurre il gesto manierato di una chitarra rock. Il contrasto topologico è sin troppo elementare, quasi brutale, e infatti compare un "terzo" elemento, difficile da definire: una sorta di massa pulviscolare in cui mi sembra di distinguere qualcosa che assomiglia ad una serie di falsi impulsi-radio. Il "perturbante" (Freud lo definisce "una realtà inconsueta, nuova, non familiare" e noi sentiamo un po' aria di casa) conduce ad una nuova opposizione: quella tra presenza e assenza; sullo schermo sonoro sento adesso un rumore di corda, una corda battuta e stirata, di cui avverto la vicinanza, la presenza ingombrante, ma intuisco anche, in lontananza l'esistenza di una superficie sonora piatta, senza grandi rilievi, solo piccole buche e grinze di terra corrugata. Le distanze e le presenze sembrano dunque acquisite, ma irrompe sulla scena un suono curiosamente "realistico", quasi di oggetti solidi che finiscono letteralmente in pezzi. È solo il preludio, però, nuovamente perturbante, allo choc di un enorme, smisurato, inconcepibile silenzio oltre il quale si intravede nuovamente, ma questa volta ridotto alla sua materia pura e incontrastata, l'ostinato battente della corda elettrica.
Anche il pezzo di Marco Marinoni, Wahn, sembra generato dalla contrapposizione "acustica" tra contiguità e separazione, ma l'enfasi è posta, sin dall'inizio, sulla distanza tra gli avvenimenti sonori piuttosto che sulla loro prossimità. Se non mi lascio "sedurre" dalla violenza fonica dell'incipit, colgo immediatamente, infatti, una sorta di gerarchia tra gli oggetti sonori: in un generico "sopra" (topologico, dinamico, materico) avverto una serie di punti di suono particolarmente timbrati, degli apici di materia, e in un altrettanto generico "sotto" una sostanza densa, grezza, non lavorata, quasi allo stato naturale. So che punti e massa non hanno lo stesso valore e capisco che le fasce continue di suono servono da collegamento tra un apice e l'altro. Mi sembra di avvertire dunque una qualche forma di sintassi che collega tra loro i singoli punti. Ma non riesco ancora a capire quale: i punti infatti non seguono un impulso ritmico regolare, ma disegnano soltanto curve ascendenti e discendenti, seguendo il moto pendolare del crescendo e del diminuendo: mi accorgo di essere di fronte ad una nuova categoria percettiva: il contrasto tra punto e linea. Che non mi aiuta però a decifrare la sintassi sotterranea presente, ma nascosta. Ad un certo punto, cercando di non farmi distrarre dal "disturbo" di oggetti che si spezzano e di corde che emettono respiri impercettibili, riesco a capire che la sintassi è data dai silenzi, dai silenzi apparentemente casuali che separano una stringa di suono da un'altra: dopo ogni silenzio c'è una metamorfosi, dopo ogni dispersione della materia (fade-out) c'è un addensamento (fade-in), e colgo le frasi che i silenzi separano come un discorso, anche se continuamente interrotto. Alla fine però un approdo c'è: è il suono rotondo, flou, di quello che, lo capisci all'improvviso, è un pianoforte: una lancinante "immagine" reale che ti resta addosso fino all'ultimo istante, anche se "qualcuno" colpisce "qualcosa" con una violenza di suono che significa soltanto "fine".
Il pezzo di Massimo Mariani, Six - O - Four, consente di compiere, invece, un'altra fondamentale esperienza percettiva: quella che scaturisce dal contrasto elementare tra mobilità e staticità. O meglio ancora: consente di vivere l'esperienza (tipicamente varesiana) del movimento del suono nello spazio. L'incipit è affidato ad un suono fisso, costante, di media frequenza. Quasi istintivamente mi chiedo: esistono una fonte, un percorso, una direzione, un punto di arrivo? Ha senso pormi questa domanda? I due punti interrogativi rimangono sospesi fino a che l'attenzione non si sposta verso la superficie sulla quale il suono costante sembra disegnarsi: è fatta di una strana materia filamentosa, quasi una ragnatela, che però mi appare, in contrasto con il suono fisso, assolutamente immobile, statica, piatta. Improvvisamente, attraverso l'immobilità, il suono costante non solo acquista movimento, ma ne colgo tutte le caratteristiche spaziali: provenienza, direzione, punto di arrivo. La chiarezza topologica, però, è di breve durata: nel suo movimento il suono fisso compie una "vistosa" (l'aggettivo è improprio, ma il termine "uditosa" non è contemplato dalla lingua italiana) metamorfosi dinamica: "intona", per così dire, un crescendo impressionante che non può non giungere al punto di rottura. Da questo momento in poi le categorie percettive cambiano di segno. Al massimo grado di entropia sonora si sostituisce infatti, bruscamente e inevitabilmente, uno stato di quasi totale assenza di suono: al pieno, succede il vuoto, al continuum, il discreto. Ecco che allora mi trovo ad associare quasi inconsciamente il movimento con il pieno e la stasi con il vuoto: una condizione percettiva instabile che richiede perentoriamente una "risoluzione". E infatti l'attesa viene interrotta dall'apparizione di un altro elemento "realistico", perfetto pendant del pianoforte di Wahn: la voce. Un "sospetto" di voce, per la verità, una lingua accartocciata che non riesce a spiegarsi e che non articola alcuna parola: corde vocali attorcigliate che possono pronunciare soltanto pulviscoli, detriti, scorie di suono impuro.
La visione dello spazio sonoro offerta dal pezzo di Franco Degrassi, Luminal, è del tutto diversa: per un verso topologicamente più precisa e per l'altro, di conseguenza, assai più astratta. Nelle prime "misure" (in effetti lo spazio ha bisogno di essere misurato!) avverto subito una distinzione di cui non avevo ancora avuto esperienza: quella tra "destra" e "sinistra": non è solo l'effetto del banale sdoppiamento stereofonico dei canali di emissione: è invece il risultato di un vero e proprio trattamento sonoro della materia fonica che distingue il suono "aperto" (dinamicamente in espansione) dal suono "chiuso" (che tende cioè all'assorbimento): per una ragione percettiva che rimane (al mio orecchio) misteriosa, tendo ad identificare con la sinistra il suono chiuso e con la destra il suono aperto, disegnando dunque una sorta di "corridoio" sonoro apparentemente sgombro di ostacoli. Ma anche in questo caso una sorta di "drammaturgia latente" che sembra spesso accompagnare il suono elettronico, impone una svolta, un incidente, un "perturbante". A turbare la linearità rettilinea e rassicurante del "corridoio" interviene una sorta di incidente "meccanico", un inceppamento inatteso. Il respiro del suono si fa improvvisamente corto: sembra di sentire una ghiera dentata che ne fa ruotare un'altra, ma un dente è spezzato e il moto è ansimante, irregolare, strappato. Come spesso accade quando un meccanismo complesso entra in crisi il "virus" dell'anomalia si diffonde rapidamente a tutte le parti della macchina: che infatti comincia a respirare in modo quasi doloroso. Il suono denso, magmatico, scuro del congegno entra in conflitto con il nervo acustico, lo sollecita con violenza, lo attacca, lo fa quasi sanguinare: è l'esperienza, nuova, del disagio acustico, della piccola tortura, che alla fine lascia la sensazione di un vuoto spossato, di uno sfondo senza figura, di una macchina celibe privata del suo meccanismo vitale.
Anche il pezzo di Tommaso Perego, Les jeux sont faits, presenta una costruzione topologica "astratta", fondata su reticoli spaziali lineari e definiti, ma induce ad esperire una condizione percettiva nuova, fondata essenzialmente sul procedimento dell'accumulazione e del condensamento. L'incipit, per la verità, riconduce all'idea, già sperimentata, di pulsazione: colgo un battito sonoro regolare che aumenta e diminuisce d'intensità, giocando sulla contrapposizione tra presenza e assenza, svelamento e nascondimento. Ma la pulsazione viene assorbita rapidamente da una sorta di nuvola gassosa e leggera, formata dai bip-bip inarticolati di aggeggini elettrici rotti che giacciono, smontati, su una superficie lucida e compatta. Il pulviscolo si raddensa (ed ecco che appare in limine, per la prima volta, la figura dell'accumulazione) e libera nuovamente un suono fisso e costante, leggermente ondulato, che sembra attraversare una fila di stracci di suono rimasti appesi a "qualche cosa". Adesso il gioco della presenza assenza assume un moto pendolare e vagamente incantatorio. Ho la sensazione precisa che il suono ondulato compia un movimento circolare: prima mi passa davanti, vicinissimo, poi si allontana, disegna un anello perfetto e alla fine ritorna esattamente al punto di partenza. Il movimento però si esaurisce rapidamente e lascia, come scorie del suo passaggio, una moltitudine caotica di oggetti sonori corti, senza estensione, dispersi in uno spazio vuoto. Ma nel "finale" una sorta di calamita invisibile sembra attirare a sé i frammenti, li carica di energia e li fa vorticare, come nel cuore di un micro uragano. Mano a mano che la velocità del moto vorticoso aumenta la "pila" dei suoni elettrici si carica assorbendo e restituendo l'energia cinetica accumulata. Ecco: adesso l'esperienza della condensazione acquista una precisa dimensione visiva e si dispone lungo i confini spaziali della destra e della sinistra. La conclusione è brutale, imprevista, lucidamente antiretorica.
La prima esperienza sonora che il pezzo di Mario Bajardi, BJM Piano Studio, invita a compiere è invece quella del "pieno". Un pieno totale, senza il correlativo del vuoto, un insieme compatto che non sembra mostrare crepe e fenditure. L'incipit è dato da una sorta di continuum metallico, e mi convinco per qualche ragione di essere di fronte ad una lastra levigata che risuona senza essere percossa: mi vengono in mente (ma forse è l'effetto di un residuo "realistico" di immaginazione) le lamine di rame che si usano a teatro per produrre il rumore del tuono. Mi rendo conto comunque di essere di fronte ad una fonte sonora che appare potenzialmente inesauribile, che non consoce il piano, il poco o il niente, che produce al contrario una stato costante di massima tensione. Anche in questo caso al climax deve (necessariamente?) corrispondere l'anticlimax. Che infatti, puntualmente, arriva e assume l'aspetto di una nuova coppia percettiva, quella che gioca sulla contrapposizione astratto/concreto. Fino al punto di crisi del climax, infatti, il suono è delocalizzato e astratto, ma in cima alla salita, proprio sulla cresta del crinale oltre il quale si apre la discesa, intervengono, inattesi, alcuni "rumori fuori scena" che sembrano possedere la materialità dei suoni concreti: escoriazioni, screpolature, fenditure, slabbramenti. Mi assale il sospetto che lo spazio dei nuovi oggetti perturbanti sia proprio quello, metallico, della lastra, e ho la sensazione che la sua superficie, incrinata dai colpi di un martello immaginario, stia per cedere, sia vicina al punto di rottura. Ma accade qualche cosa di nuovo: lo spessore del suono, improvvisamente, si verticalizza, assume un andamento ascensionale, la massa metallica si disperde e si condensa, si alleggerisce e si raddensa, seguendo il ritmo di una espirazione naturale: un larghissimo silenzio introduce ad un paesaggio sonoro violento, in cui cadono, da un "dove" nuovamente indeterminato, colpi pesanti e secchi, appena addolciti dalle risonanze lontane di corde in vibrazione: il concreto ha di nuovo ceduto lo spazio sonoro all'astratto.
Con il pezzo di Giancarlo Turaccio, Trisì, ci troviamo di fronte, infine, ad una condizione di ascolto inedita che ci porta a sperimentare la divaricazione percettiva tra la condizione di simultaneità e quella di divaricazione. O più precisamente tra quella particolare epifania di simultaneità che è data dal parallelismo tra le voci e quella forma speciale di divaricazione che è rappresentata dalla diafonia. Il meccanismo sonoro iniziale è di tipo palesemente accumulativo: l'incipit propone un suono puro, isolato, che sembra tendersi ad arco in uno spazio perfettamente vuoto. A questa prima linea di suono se ne affianca poi un'altra che corre in modo sostanzialmente parallelo rispetto alla precedente: ed io provo la sensazione della ideale coincidenza di due elementi orizzontali identici, ma perfettamente distinguibili. Le due monodie parallele però, seguendo l'inevitabile metamorfosi dei processi cinetici, non tardano a divaricarsi e realizzano ben presto una arcaica diafonia che sovrappone suoni fissi e suoni mobili intrecciati in un ordito fittissimo. Faccio appena in tempo dunque a cogliere il fenomeno "spettacolare" dello sdoppiamento del suono, insomma, e alla trama sonora si sono aggiunti altri cento fili che tendono alla caotica entropia dell'ordito polifonico. Anche in questo caso, però, l'indeterminatezza del caos deve lasciare il posto ad un principio di individuazione sonora più semplice ed accessibile (l'eccesso di informazione non può durare, drammaturgicamente, all'infinito). E difatti, preparata da un lungo ponte mobile, appare a sorpresa, come sulla scena di un teatrino immerso nell'oscurità, la nostalgica perorazione solista di un sassofono sfocato che canta, in lontananza, uno standard inconfondibilmente jazzistico. In questo istante vivo l'esperienza della divaricazione straniante tra due universi in conflitto: da una lato le scorie di un "sound" storicamente determinato e riconoscibile e dall'altro le pulsazioni magmatiche di una materia sonora in costante ebollizione. La ricomposizione avviene nel segno di una dilatazione parossistica del tempo sonoro: sabbie mobili che nel moto lentissimo della loro superficie inghiottono, senza farli più emergere, i due "attori" e le loro rispettive scene.
(Guido Barbieri)