3a edizione
3° CD Call
Punti di Ascolto
opere di musica elettroacustica
Brani inclusi nel CD:
1. Marco Tentori Impression (2006)
per suoni concreti elaborati al computer
Produzione: studio del compositore
2. Roberto Girolin Anakros (2006)
per soprano invisibile, suoni di sintesi e processi sonori digitalizzati
Testo parzialmente utilizzato: Das unglückliche Ohr di Hans Magnus Enzensberger (da Musica del futuro, Einaudi, Torino, 1997)
Anna Dazzan soprano
Produzione: studio del compositore
3. Antonino Chiaramonte Riflessioni (2006)
per suoni di flauto (flauto in do, flauto in sol, flauto basso e shakuhachi) elaborati al computer
Campioni di flauto: Gianni Trovalusci, Antonino Chiaramonte
Produzione: AuraMaris Studio Roma
4. Marco Dibeltulu Sguardo contemporaneo (2006) per supporto digitale
Produzione: studio del compositore
5. Francesco Galante Resilienza (2005)
per suoni elettronici
Produzione: studio del compositore
6. Alessandro Altavilla Pixels we lost in the fire (2004) per supporto digitale
Realizzazione e produzione presso: Laboratorio di Musica e Nuove Tecnologie del Conservatorio N. Piccinni di Bari
7. Gian Marco Mora Kata Kosmon (2005)
per vocal performer e live electronics
Loredana Scianna voce
Registrazione presso Europa Teatri (Parma)
Produzione: studio del compositore
8. Marco Momi Réflexions II (2006)
per suoni di flauto, violoncello e pianoforte elaborati al computer
Produzione: studio del compositore
per suoni concreti elaborati al computer
Produzione: studio del compositore
2. Roberto Girolin Anakros (2006)
per soprano invisibile, suoni di sintesi e processi sonori digitalizzati
Testo parzialmente utilizzato: Das unglückliche Ohr di Hans Magnus Enzensberger (da Musica del futuro, Einaudi, Torino, 1997)
Anna Dazzan soprano
Produzione: studio del compositore
3. Antonino Chiaramonte Riflessioni (2006)
per suoni di flauto (flauto in do, flauto in sol, flauto basso e shakuhachi) elaborati al computer
Campioni di flauto: Gianni Trovalusci, Antonino Chiaramonte
Produzione: AuraMaris Studio Roma
4. Marco Dibeltulu Sguardo contemporaneo (2006) per supporto digitale
Produzione: studio del compositore
5. Francesco Galante Resilienza (2005)
per suoni elettronici
Produzione: studio del compositore
6. Alessandro Altavilla Pixels we lost in the fire (2004) per supporto digitale
Realizzazione e produzione presso: Laboratorio di Musica e Nuove Tecnologie del Conservatorio N. Piccinni di Bari
7. Gian Marco Mora Kata Kosmon (2005)
per vocal performer e live electronics
Loredana Scianna voce
Registrazione presso Europa Teatri (Parma)
Produzione: studio del compositore
8. Marco Momi Réflexions II (2006)
per suoni di flauto, violoncello e pianoforte elaborati al computer
Produzione: studio del compositore
Il CD è stato prodotto dalla Federazione CEMAT con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Direzione Generale dello Spettacolo dal vivo.
Le registrazioni dei singoli brani inclusi nel Cd sono state realizzate a cura degli autori presso i propri studi o presso i Centri di produzione menzionati.
Master a cura di Auditorium Edizioni
Coordinamento: Gianni Trovalusci
Realizzazione del Cd Rom: Carlo Di Giugno
Progetto grafico: Elena Marelli
Redazione: Francesca Aragno
Traduzioni: Anne Penney Ricotti, Salvatore Marra
Le registrazioni dei singoli brani inclusi nel Cd sono state realizzate a cura degli autori presso i propri studi o presso i Centri di produzione menzionati.
Si ringrazia: Ministero degli Affari Esteri - Direzione Generale per la Promozione e la Cooperazione Culturale
Collezione di Arte Contemporanea Italiana alla Farnesina - coordinata dal Vice Direttore Generale Elio Menzione
prof. Maurizio Calvesi, prof. Lorenzo Canova, l’artista Roberto Almagno
Tempo di ascolto (e ascolto del tempo)
Leonardo da Vinci era convinto che la musica fosse (ai suoi tempi) niente più che una “povera sventurata”. Non perché chiedesse l’elemosina, lacera e straccia, agli angoli delle strade, ma perché, meno letterariamente, era costretta a fare i conti (ah, la misera…) con la questione del tempo. Di tempo viveva e, ahimè, di tempo moriva, destinata come era (e come è tuttora) a svanire nello stesso istante in cui l’ultimo suono si spegne. Una condanna all’estinzione, dunque, che le arti “maggiori” come la pittura, la scultura e la poesia potevano allegramente evitare: “La pittura eccelle e signoreggia la musica – scrive Leonardo nel Trattato – perché essa non muore immediatamente dopo la sua creazione, come fa la sventurata musica, anzi resta in essere e ti si dimostra in vita quel che in fatto è una sola superficie”. Nel pensiero estetico leonardesco (e più in generale nell’orizzonte della cultura rinascimentale) la musica assume quindi uno status metaforico che le altre arti non conoscono: diventa cioè il “simbolo sonoro” della “vita umana” e della sua inevitabile, tragica caducità.
E’ noto che per vincere questa miserevole condizione, per esorcizzare il fantasma della “fine”, la musica occidentale ha cercato disperatamente di attribuire a questo dato puramente fisico la dignità di un discorso. E ha dunque trasformato la fine in finale, facendone il momento temporale più delicato e importante della riflessione sulla forma: dall’età barocca al tardo romanticismo il “finale” è una efficientissima idrovora temporale che attira prepotentemente verso di sé l’organizzazione linguistica del discorso musicale. E questo moto inevitabilmente rettilineo rende per secoli orizzontale e “progressiva” la percezione temporale degli eventi sonori.
Ma l’inganno non poteva durare a lungo: la retorica, per quanto potente e organizzata, non aveva alcuna speranza di vincere la sua battaglia “storica” contro la fisica. Difatti l’avvento del decadentismo di fine Ottocento (parente stretto, nonostante le apparenze, del positivismo) piazza una formidabile carica esplosiva alla base della forma classico-romantica: e lo fa, non a caso, mettendo in discussione l’idea stessa di “finale”. Da Debussy in poi, e poi via via passando attraverso il puntillismo weberniano, il serialismo, lo spettralismo e la musica elettroacustica, il finale, con tutta la sua prepotente carica attrattiva, si frantuma in tanti, possibili, infiniti finali: ogni frase, ogni “misura”, ogni cellula sonora, potenzialmente ogni suono, costituiscono un possibile finale. Entra così, clamorosamente, in crisi la percezione vettoriale e rettilinea del flusso sonoro e l’ascoltatore è obbligato ad una continua riorganizzazione delle proprie categorie temporali.
Il perno di questa radicale metamorfosi linguistica (una delle più devastanti nella storia millenaria della “western music”) diventa così, per ironia della sorte, non il suono, bensì il suo esatto contrario: il silenzio. Se l’assenza di suono aveva il compito di certificare l’effettivo compimento del finale ora ne diventa il freddo, gelido, imperturbabile esecutore testamentario. La frammentazione del ductus sonoro, nonché l’esperienza di un tempo individuale radicalmente inconciliabile con le categorie del tempo collettivo, riconsegnano finalmente alla musica, come voleva Leonardo, uno statuto profondamente metaforico. La “sventurata”, dopo secoli di inganni e di autoinganni, torna ad essere tale e diventa il simbolo sonoro di una nuova forma di caducità: l’assenza tipicamente postmoderna non di una fine, bensì di un fine.
Una fondamentale esperienza di ascolto è dunque quella di lasciarsi “penetrare” da questa instabilità permanente, da questa inevitabile “vaganza”, e di concedere al “sistema di ascolto” la possibilità di costruire una “partitura temporale” che viva nell’hic et hunc dell’esperienza uditiva. Ed è esattamente ciò che i brani di “Call 3”, al di la delle rispettive e preziose differenze, hanno in comune: la capacità spontanea e non calcolata di costruire “flussi temporali” indeterminati, imprevedibili e, proprio per questa ragione, ricchissimi di “informazione sonora”.
In Pixel we lost in the fire di Alessandro Altavilla, ad esempio, l’incipit presenta una linea sonora dinamicamente “piatta”, quasi senza rilievo, e l’impressione di ascolto è quella di un tempo apparentemente stabile, costante, senza oscillazioni. Ma dopo pochi istanti si coglie, all’improvviso, una lieve increspatura, un suono granuloso e “mimetico”: nonostante il ductus generale rimanga costante si ha la sensazione di un aumento sensibile delle frequenze ritmiche e dunque di una accelerazione del flusso temporale. Si crea dunque, in questo modo, una sorta di “diafonia” che provoca lo sdoppiamento dei percorsi percettivi del tempo. Verso la metà del brano il flusso sembra assumere per qualche istante una traiettoria quasi “cantabile”, percorsa da intervalli nitidi e precisi, e questo mutamento produce immediatamente l’ingresso di un tempo “misurato”, scandito cioè da unità temporali precise. Ma poco prima della conclusione l’equilibrio tra le diverse fonti sonore tende a trovare un equilibrio stabile: il soffio prolungato e senza rilievo dell’incipit e il suono granuloso si sovrappongono e si compenetrano, ristabilendo così quel principio di “diffrazione temporale” che sembra essere una delle caratteristiche principali di questo lavoro.
In Riflessioni di Antonino Chiaramonte, invece, i suoni soffiati del flauto, rapidi come sciabolate improvvise, imprimono immediatamente al brano un ductus temporale intenso, “saturo” che non sembra conoscere pause e silenzi: insomma un tempo “pieno”, rettilineo, non ambiguo. Ma dopo i due minuti iniziali una estesa fascia sonora piatta e schiacciata se su stessa gela improvvisamente la partitura temporale introducendo la sensazione di un tempo irregolare, che ricade continuamente nel vuoto, nell’assenza, nella immobilità. Successivamente i parametri sonori tendono a farsi sempre più intensi e portano ad una sorta di lungo crescendo in cui il volume e lo spessore del suono crescono senza sosta: uno scarto sensibile che produce una violenta accelerazione del ritmo temporale apparente. Ma una sezione simile all’incipit riporta nuovamente ad una scansione temporale più misurata, segnata da una pulsazione regolare e “unitaria”. Il finale sembra suddividere il flusso sonoro in una serie di eventi sonori isolati e la struttura temporale immediatamente ne risente: il tempo “soggettivo”, portato a dilatare la percezione dei singoli accadimenti sonori, si divarica da quello “oggettivo” che tende invece a far scivolare verso lo “sfondo” la percezione dell’insieme.
Sguardo contemporaneo, il brano di Marco Dibeltulu, impone subito all’ascolto due traiettorie sonore distinte: un suono fisso costante e un suono rapido alternato. Lo sdoppiamento produce ovviamente anche due scansioni temporali differenziate: un tempo pesante, radicato, privo di asperità e, dall’altra parte, un tempo leggero, volatile, segmentato che sembra possedere un maggiore rilievo dinamico. Ma alla scadenza del secondo minuto nel gioco scampanellante dei suoni leggeri si insinua, come un violento taglio obliquo, un suono macchinale, “industriale,” che provoca immediatamente la sensazione di un tempo obliquo, inclinato, sfuggente, assolutamente non misurabile. La spazializzazione successiva provoca, oltre alla moltiplicazione delle fonti percettive, anche la sensazione di un tempo migrante, instabile che non si lascia catturare dal rintocco regolare del tactus. Affiora improvvisamente, però, un suono percussivo “realistico”, che richiama il “drumming” di una batteria: sembra così che il tempo da un istante all’altro diventi pieno, risonante, lucido. Ma gli oggetti sonori e le loro prospettive temporali tendono a nuovamente a divaricarsi: da un lato il tempo delle “risonanze”, morbido e flessibile, determinato dai suoni lenti e prolungati, dall’altro il tempo pungente e ristretto dei suoni che appaiono e scompaiono, invece, con la velocità del lampo. Il crescendo conclusivo tende però a fondere in un magma più compatto le fonti del suono e il tempo si dirige docilmente verso la convenzione del “finale”.
Il segnale d’inizio di Resilienza, il lavoro di Francesco Galante, è di carattere esplicitamente materico e conduce, per sua natura, ad una attesa temporale determinata: si immagina, sin da subito, un tempo definito, compatto, leggibile. E l’attesa viene, in parte, soddisfatta: i blocchi sonori che si contrappongono con durezza nella fase iniziale producono effettivamente la sensazione di un tempo scandito con nettezza, senza esitazioni o scansioni irregolari. Ma dai blocchi si sprigionano all’improvviso, come da una fiamma ossidrica, lingue di suono di durata e spessore irregolari che creano l’impressione di uno strano tempo “retrattile”: il suono sembra espandersi in linea retta, ma poi repentinamente si ritrae, si accorcia, ritorna al blocco sonoro che lo ha generato. Le pause di silenzio che poco dopo, a cadenza quasi regolare, si interpongono tra i diversi blocchi creano addirittura l’impressione di una inversione della freccia del tempo. Ma nel finale si assiste ad una “spettacolare” moltiplicazione delle fonti di emissione e dunque dei materiali sonori. Nonostante le pause e i silenzi continuino a scandire il tactus, la proliferazione dei punti di generazione del suono provoca la sovrapposizione di “dischi temporali” che girano a velocità differenti. E il tempo complessivo, alla fine, acquista una curiosa dimensione “vorticosa”, come se la spirale temporale tendesse ad avvitarsi, senza fine, su se stessa.
L’incipit di Anakros, il pezzo realizzato da Roberto Girolin, è costituito da una sorta di “gracidio” fisso e cosante che viene sommerso, a cadenza quasi regolare, da ondate di suono “sciabolante”. Nel flusso generico del tempo di superficie viene così introdotta una dimensione temporale contratta, rapida, priva di espansione. Il ruolo sonoro portante sembra affidato al suono di fascia che infatti si fa più rotondo e compatto e viene sottoposto ad un lieve crescendo. Ma è solo un episodio transitorio: una pausa quasi priva di rilievo sonoro allunga a dismisura la corda del tempo percepito e lascia affiorare una nuova presenza sonora: la voce. La comparsa dell’elemento vocale genera immediatamente l’attesa di un tempo nuovo, scandito non più soltanto dalla forma del suono, ma anche dal senso di un testo che si suppone presente. E’il tempo della percezione semantica, dissimile, e certamente più espanso, rispetto al tempo della percezione sonora. La regola si conferma anche in questo caso, nonostante il testo sia inizialmente ridotto a pochi fonemi sparsi e privi di alcuna identità semantica. La linea vocale segue due modalità di scrittura separate e distinte: suoni lunghi e tenuti e suoni invece più rapidi e rapinosi, di allure esplicitamente virtuosistica. Ed è proprio questa divaricazione a produrre, inevitabilmente, due differenti scansioni temporali: il “pieno” del tempo rivolto alla parola e il vuoto del tempo lasciato invece alla contemplazione astratta del suono vocale. La discrasia si ricompone nella sezione conclusiva dove le fonti sonore tendono a confondersi in una quiete priva di rilievi e dove la voce si distende in strisce sonore più dilatate ed espanse, interrotte soltanto, nel finale, dal gioco di una risata e di una infantile lallazione. E il tempo diventa, curiosamente, un orologio capace di misurare il tempo “reale” della scena.
Assai diversa la partitura temporale di Réflexions II di Marco Momi: gli attacchi di suono suoni sono inizialmente netti, “mimetici”, quasi a voler ricordare l’origine acustica e non digitale del materiale di partenza. E questa modalità di scrittura produce l’impressione soggettiva di una pulsazione temporale rigida, misurata, contratta. Subito però il flusso sonoro si distende, si fa più rarefatto e di conseguenza il tempo di ascolto tende a dilatarsi: ben presto, dopo una fase di transizione, riappaiono a cadenza irregolare i rintocchi secchi e taglienti dei suoni che richiamano i timbri del flauto, del violoncello e del pianoforte. E ciò produce una curiosa struttura temporale di tipo “parentetico”: i suoni mimetici disegnano cioè le parentesi di apertura e di chiusura delle unità temporali all’interno delle quali i materiali sonori si muovono con maggiore libertà timbrica e dunque anche con maggiore flessibilità temporale. Il lungo silenzio finale, colmato solo dal sibilo del flauto e dalle risonanze “naturali”degli strumenti, sembra rinviare ad un tempo “ulteriore”, altro e irriducibile rispetto al “tempo reale” del suono presente.
L’elemento vocale segna fatalmente anche la partitura temporale di Kata Kosmon, il lavoro realizzato da Gian Marco Mora. I suoni e i fonemi “intonati” dalla voce, anche se non possiedono alcuna coerenza sintattica e alcuna intelligibilità semantica, richiamano tuttavia un universo di senso connesso alle proprietà comunicative di un testo sotteso. E portano in scena dunque un tempo inevitabilmente scandito dalla percezione di unità di senso extra musicali. In questo caso le immagini sonore disegnate dalla “vocal perfomer” seguono un rigoroso principio di scrittura , quello della non ripetizione: ogni accadimento è perfettamente chiuso e risolto in se stesso e non rinvia ad alcuna accattivante ricorrenza, né alla soddisfazione di alcuna attesa precostituita. Il risultato percettivo è una sorta di tempo puntiforme, fortemente irregolare, che si afferma e svanisce nell’arco brevissimo di durata del singolo avvenimento. Caratteristica di questa sequenza è la continua alternanza tra un tempo dilatato, connesso alle emergenze più scopertamente mimetiche, e un tempo contratto, determinato invece dai suoni più astratti e indecifrabili. Nella seconda metà del brano la cadenza degli eventi vocali si dirada in modo sensibile introducendo lunghe pause di silenzio tra un “fenomeno” e il successivo. Procedendo verso il finale le matrici del suono vocale e di quello strumentale tendo a sovrapporsi creando una pasta sonora magmatica e compatta. Le emissioni sonore si fanno progressivamente più dure e angolose e al tempo puntiforme si sostituisce un tempo “senza forma”, aperto alle infinite declinazioni di un suono che sembra tornare verso l’arcaicità brutale del non senso.
Fissa il cronometro sul tempo presente, invece, il lavoro di Marco Tentori, Impression. Il rinvio apparente di alcuni suoni alla matrice “concreta” dalla quale provengono (dispostivi elettrici, rumori di vita quotidiana) sembra disegnare, sin dall’inizio, un preciso “tempo della narrazione”, lineare e quasi “aneddotico”. Ma trascorsi i cinque minuti iniziali il materiale si organizza in una serie di quadri sonori autonomi e separati, divisi l’uno dall’altro da pause di silenzio più o meno prolungate. E all’interno di ciascun quadro la “violenza” dell’impatto sonoro tende ad aumentare. Il tempo dell’ascolto tende dunque a strutturarsi secondo un modello anti-narrativo che segue le cadenze temporali tipiche del “racconto a finestre”: ogni pannello, nella sua staticità, produce una sorta di tempo centripeto che tende a ricadere su se stesso senza alcuna irradiazione verso l’esterno. Il brano, anche grazie alla sua estensione temporale oggettiva, si articola dunque in una serie di blocchi temporali autonomi nei quali tendono a prevalere, di volta in volta, un tempo rigido, un tempo dilatato, un tempo mobile oppure un tempo contratto. Nella parte finale l’aumento frequenziale degli eventi sonori, e la conseguente rarefazione “per contrasto”, sembrano richiamare l’esigenza di una risoluzione temporale tipica dell’idea classica di “finale”. (Guido Barbieri)
E’ noto che per vincere questa miserevole condizione, per esorcizzare il fantasma della “fine”, la musica occidentale ha cercato disperatamente di attribuire a questo dato puramente fisico la dignità di un discorso. E ha dunque trasformato la fine in finale, facendone il momento temporale più delicato e importante della riflessione sulla forma: dall’età barocca al tardo romanticismo il “finale” è una efficientissima idrovora temporale che attira prepotentemente verso di sé l’organizzazione linguistica del discorso musicale. E questo moto inevitabilmente rettilineo rende per secoli orizzontale e “progressiva” la percezione temporale degli eventi sonori.
Ma l’inganno non poteva durare a lungo: la retorica, per quanto potente e organizzata, non aveva alcuna speranza di vincere la sua battaglia “storica” contro la fisica. Difatti l’avvento del decadentismo di fine Ottocento (parente stretto, nonostante le apparenze, del positivismo) piazza una formidabile carica esplosiva alla base della forma classico-romantica: e lo fa, non a caso, mettendo in discussione l’idea stessa di “finale”. Da Debussy in poi, e poi via via passando attraverso il puntillismo weberniano, il serialismo, lo spettralismo e la musica elettroacustica, il finale, con tutta la sua prepotente carica attrattiva, si frantuma in tanti, possibili, infiniti finali: ogni frase, ogni “misura”, ogni cellula sonora, potenzialmente ogni suono, costituiscono un possibile finale. Entra così, clamorosamente, in crisi la percezione vettoriale e rettilinea del flusso sonoro e l’ascoltatore è obbligato ad una continua riorganizzazione delle proprie categorie temporali.
Il perno di questa radicale metamorfosi linguistica (una delle più devastanti nella storia millenaria della “western music”) diventa così, per ironia della sorte, non il suono, bensì il suo esatto contrario: il silenzio. Se l’assenza di suono aveva il compito di certificare l’effettivo compimento del finale ora ne diventa il freddo, gelido, imperturbabile esecutore testamentario. La frammentazione del ductus sonoro, nonché l’esperienza di un tempo individuale radicalmente inconciliabile con le categorie del tempo collettivo, riconsegnano finalmente alla musica, come voleva Leonardo, uno statuto profondamente metaforico. La “sventurata”, dopo secoli di inganni e di autoinganni, torna ad essere tale e diventa il simbolo sonoro di una nuova forma di caducità: l’assenza tipicamente postmoderna non di una fine, bensì di un fine.
Una fondamentale esperienza di ascolto è dunque quella di lasciarsi “penetrare” da questa instabilità permanente, da questa inevitabile “vaganza”, e di concedere al “sistema di ascolto” la possibilità di costruire una “partitura temporale” che viva nell’hic et hunc dell’esperienza uditiva. Ed è esattamente ciò che i brani di “Call 3”, al di la delle rispettive e preziose differenze, hanno in comune: la capacità spontanea e non calcolata di costruire “flussi temporali” indeterminati, imprevedibili e, proprio per questa ragione, ricchissimi di “informazione sonora”.
In Pixel we lost in the fire di Alessandro Altavilla, ad esempio, l’incipit presenta una linea sonora dinamicamente “piatta”, quasi senza rilievo, e l’impressione di ascolto è quella di un tempo apparentemente stabile, costante, senza oscillazioni. Ma dopo pochi istanti si coglie, all’improvviso, una lieve increspatura, un suono granuloso e “mimetico”: nonostante il ductus generale rimanga costante si ha la sensazione di un aumento sensibile delle frequenze ritmiche e dunque di una accelerazione del flusso temporale. Si crea dunque, in questo modo, una sorta di “diafonia” che provoca lo sdoppiamento dei percorsi percettivi del tempo. Verso la metà del brano il flusso sembra assumere per qualche istante una traiettoria quasi “cantabile”, percorsa da intervalli nitidi e precisi, e questo mutamento produce immediatamente l’ingresso di un tempo “misurato”, scandito cioè da unità temporali precise. Ma poco prima della conclusione l’equilibrio tra le diverse fonti sonore tende a trovare un equilibrio stabile: il soffio prolungato e senza rilievo dell’incipit e il suono granuloso si sovrappongono e si compenetrano, ristabilendo così quel principio di “diffrazione temporale” che sembra essere una delle caratteristiche principali di questo lavoro.
In Riflessioni di Antonino Chiaramonte, invece, i suoni soffiati del flauto, rapidi come sciabolate improvvise, imprimono immediatamente al brano un ductus temporale intenso, “saturo” che non sembra conoscere pause e silenzi: insomma un tempo “pieno”, rettilineo, non ambiguo. Ma dopo i due minuti iniziali una estesa fascia sonora piatta e schiacciata se su stessa gela improvvisamente la partitura temporale introducendo la sensazione di un tempo irregolare, che ricade continuamente nel vuoto, nell’assenza, nella immobilità. Successivamente i parametri sonori tendono a farsi sempre più intensi e portano ad una sorta di lungo crescendo in cui il volume e lo spessore del suono crescono senza sosta: uno scarto sensibile che produce una violenta accelerazione del ritmo temporale apparente. Ma una sezione simile all’incipit riporta nuovamente ad una scansione temporale più misurata, segnata da una pulsazione regolare e “unitaria”. Il finale sembra suddividere il flusso sonoro in una serie di eventi sonori isolati e la struttura temporale immediatamente ne risente: il tempo “soggettivo”, portato a dilatare la percezione dei singoli accadimenti sonori, si divarica da quello “oggettivo” che tende invece a far scivolare verso lo “sfondo” la percezione dell’insieme.
Sguardo contemporaneo, il brano di Marco Dibeltulu, impone subito all’ascolto due traiettorie sonore distinte: un suono fisso costante e un suono rapido alternato. Lo sdoppiamento produce ovviamente anche due scansioni temporali differenziate: un tempo pesante, radicato, privo di asperità e, dall’altra parte, un tempo leggero, volatile, segmentato che sembra possedere un maggiore rilievo dinamico. Ma alla scadenza del secondo minuto nel gioco scampanellante dei suoni leggeri si insinua, come un violento taglio obliquo, un suono macchinale, “industriale,” che provoca immediatamente la sensazione di un tempo obliquo, inclinato, sfuggente, assolutamente non misurabile. La spazializzazione successiva provoca, oltre alla moltiplicazione delle fonti percettive, anche la sensazione di un tempo migrante, instabile che non si lascia catturare dal rintocco regolare del tactus. Affiora improvvisamente, però, un suono percussivo “realistico”, che richiama il “drumming” di una batteria: sembra così che il tempo da un istante all’altro diventi pieno, risonante, lucido. Ma gli oggetti sonori e le loro prospettive temporali tendono a nuovamente a divaricarsi: da un lato il tempo delle “risonanze”, morbido e flessibile, determinato dai suoni lenti e prolungati, dall’altro il tempo pungente e ristretto dei suoni che appaiono e scompaiono, invece, con la velocità del lampo. Il crescendo conclusivo tende però a fondere in un magma più compatto le fonti del suono e il tempo si dirige docilmente verso la convenzione del “finale”.
Il segnale d’inizio di Resilienza, il lavoro di Francesco Galante, è di carattere esplicitamente materico e conduce, per sua natura, ad una attesa temporale determinata: si immagina, sin da subito, un tempo definito, compatto, leggibile. E l’attesa viene, in parte, soddisfatta: i blocchi sonori che si contrappongono con durezza nella fase iniziale producono effettivamente la sensazione di un tempo scandito con nettezza, senza esitazioni o scansioni irregolari. Ma dai blocchi si sprigionano all’improvviso, come da una fiamma ossidrica, lingue di suono di durata e spessore irregolari che creano l’impressione di uno strano tempo “retrattile”: il suono sembra espandersi in linea retta, ma poi repentinamente si ritrae, si accorcia, ritorna al blocco sonoro che lo ha generato. Le pause di silenzio che poco dopo, a cadenza quasi regolare, si interpongono tra i diversi blocchi creano addirittura l’impressione di una inversione della freccia del tempo. Ma nel finale si assiste ad una “spettacolare” moltiplicazione delle fonti di emissione e dunque dei materiali sonori. Nonostante le pause e i silenzi continuino a scandire il tactus, la proliferazione dei punti di generazione del suono provoca la sovrapposizione di “dischi temporali” che girano a velocità differenti. E il tempo complessivo, alla fine, acquista una curiosa dimensione “vorticosa”, come se la spirale temporale tendesse ad avvitarsi, senza fine, su se stessa.
L’incipit di Anakros, il pezzo realizzato da Roberto Girolin, è costituito da una sorta di “gracidio” fisso e cosante che viene sommerso, a cadenza quasi regolare, da ondate di suono “sciabolante”. Nel flusso generico del tempo di superficie viene così introdotta una dimensione temporale contratta, rapida, priva di espansione. Il ruolo sonoro portante sembra affidato al suono di fascia che infatti si fa più rotondo e compatto e viene sottoposto ad un lieve crescendo. Ma è solo un episodio transitorio: una pausa quasi priva di rilievo sonoro allunga a dismisura la corda del tempo percepito e lascia affiorare una nuova presenza sonora: la voce. La comparsa dell’elemento vocale genera immediatamente l’attesa di un tempo nuovo, scandito non più soltanto dalla forma del suono, ma anche dal senso di un testo che si suppone presente. E’il tempo della percezione semantica, dissimile, e certamente più espanso, rispetto al tempo della percezione sonora. La regola si conferma anche in questo caso, nonostante il testo sia inizialmente ridotto a pochi fonemi sparsi e privi di alcuna identità semantica. La linea vocale segue due modalità di scrittura separate e distinte: suoni lunghi e tenuti e suoni invece più rapidi e rapinosi, di allure esplicitamente virtuosistica. Ed è proprio questa divaricazione a produrre, inevitabilmente, due differenti scansioni temporali: il “pieno” del tempo rivolto alla parola e il vuoto del tempo lasciato invece alla contemplazione astratta del suono vocale. La discrasia si ricompone nella sezione conclusiva dove le fonti sonore tendono a confondersi in una quiete priva di rilievi e dove la voce si distende in strisce sonore più dilatate ed espanse, interrotte soltanto, nel finale, dal gioco di una risata e di una infantile lallazione. E il tempo diventa, curiosamente, un orologio capace di misurare il tempo “reale” della scena.
Assai diversa la partitura temporale di Réflexions II di Marco Momi: gli attacchi di suono suoni sono inizialmente netti, “mimetici”, quasi a voler ricordare l’origine acustica e non digitale del materiale di partenza. E questa modalità di scrittura produce l’impressione soggettiva di una pulsazione temporale rigida, misurata, contratta. Subito però il flusso sonoro si distende, si fa più rarefatto e di conseguenza il tempo di ascolto tende a dilatarsi: ben presto, dopo una fase di transizione, riappaiono a cadenza irregolare i rintocchi secchi e taglienti dei suoni che richiamano i timbri del flauto, del violoncello e del pianoforte. E ciò produce una curiosa struttura temporale di tipo “parentetico”: i suoni mimetici disegnano cioè le parentesi di apertura e di chiusura delle unità temporali all’interno delle quali i materiali sonori si muovono con maggiore libertà timbrica e dunque anche con maggiore flessibilità temporale. Il lungo silenzio finale, colmato solo dal sibilo del flauto e dalle risonanze “naturali”degli strumenti, sembra rinviare ad un tempo “ulteriore”, altro e irriducibile rispetto al “tempo reale” del suono presente.
L’elemento vocale segna fatalmente anche la partitura temporale di Kata Kosmon, il lavoro realizzato da Gian Marco Mora. I suoni e i fonemi “intonati” dalla voce, anche se non possiedono alcuna coerenza sintattica e alcuna intelligibilità semantica, richiamano tuttavia un universo di senso connesso alle proprietà comunicative di un testo sotteso. E portano in scena dunque un tempo inevitabilmente scandito dalla percezione di unità di senso extra musicali. In questo caso le immagini sonore disegnate dalla “vocal perfomer” seguono un rigoroso principio di scrittura , quello della non ripetizione: ogni accadimento è perfettamente chiuso e risolto in se stesso e non rinvia ad alcuna accattivante ricorrenza, né alla soddisfazione di alcuna attesa precostituita. Il risultato percettivo è una sorta di tempo puntiforme, fortemente irregolare, che si afferma e svanisce nell’arco brevissimo di durata del singolo avvenimento. Caratteristica di questa sequenza è la continua alternanza tra un tempo dilatato, connesso alle emergenze più scopertamente mimetiche, e un tempo contratto, determinato invece dai suoni più astratti e indecifrabili. Nella seconda metà del brano la cadenza degli eventi vocali si dirada in modo sensibile introducendo lunghe pause di silenzio tra un “fenomeno” e il successivo. Procedendo verso il finale le matrici del suono vocale e di quello strumentale tendo a sovrapporsi creando una pasta sonora magmatica e compatta. Le emissioni sonore si fanno progressivamente più dure e angolose e al tempo puntiforme si sostituisce un tempo “senza forma”, aperto alle infinite declinazioni di un suono che sembra tornare verso l’arcaicità brutale del non senso.
Fissa il cronometro sul tempo presente, invece, il lavoro di Marco Tentori, Impression. Il rinvio apparente di alcuni suoni alla matrice “concreta” dalla quale provengono (dispostivi elettrici, rumori di vita quotidiana) sembra disegnare, sin dall’inizio, un preciso “tempo della narrazione”, lineare e quasi “aneddotico”. Ma trascorsi i cinque minuti iniziali il materiale si organizza in una serie di quadri sonori autonomi e separati, divisi l’uno dall’altro da pause di silenzio più o meno prolungate. E all’interno di ciascun quadro la “violenza” dell’impatto sonoro tende ad aumentare. Il tempo dell’ascolto tende dunque a strutturarsi secondo un modello anti-narrativo che segue le cadenze temporali tipiche del “racconto a finestre”: ogni pannello, nella sua staticità, produce una sorta di tempo centripeto che tende a ricadere su se stesso senza alcuna irradiazione verso l’esterno. Il brano, anche grazie alla sua estensione temporale oggettiva, si articola dunque in una serie di blocchi temporali autonomi nei quali tendono a prevalere, di volta in volta, un tempo rigido, un tempo dilatato, un tempo mobile oppure un tempo contratto. Nella parte finale l’aumento frequenziale degli eventi sonori, e la conseguente rarefazione “per contrasto”, sembrano richiamare l’esigenza di una risoluzione temporale tipica dell’idea classica di “finale”. (Guido Barbieri)